Cosa succederebbe se…
… perdessi gli anni come si perdono i capelli?
… lavorassi come scrittore ad ore al supermercato?
… vedessi sparire, d’un tratto, tutti gli interruttori dalla casa?
Per scrivere i racconti che compongono “La perdita degli anni”, Vito Ferro, di domande simili, se ne é fatte parecchie.
E noi, a lui, ne abbiamo rivolte altrettante.

 

La perdita degli anni è il tuo ultimo libro: vuoi parlarcene?
La perdita degli anni è una raccolta di racconti (brevi, alcuni brevissimi), scritti negli ultimi anni e pubblicata da Autori Riuniti all’inizio di giugno. Tengo molto a questo libro per varie ragioni: mi sento uno scrittore di racconti più che di romanzi, so che la scrittura breve è la mia misura ideale, è una sfida alla quale mi sottopongo sempre con piacere ed entusiasmo, e che reputo “onesta”: non pretende di costruire mondi ed esaurirli, lascia spazio al lettore per partecipare attivamente alla stesura delle storie (e in questo lo avvicina a chi scrive), solleva interrogativi e non emette giudizi. Sono quindi 24 storie (più una bonus track), e si va dall’uomo geloso che si improvvisa detective a colui che fa una scoperta incredibile tornando a casa; si partecipa all’attesa della nascita del primo figlio, si vive una notte senza alba, si sogna una festa che metta fine all’inverno… Tutte situazioni che spero possano incuriosire e attirare il lettore.

C’è un filo rosso che collega ogni racconto?
I racconti si parlano tra loro (in questo è una raccolta molto organica): stanno a presidiare un sottile confine tra realismo e fantastico, mostrano vite e personaggi sospesi dietro ad una scelta, di fronte al tempo, alle possibilità del destino. Questo è uno degli aspetti che li accomuna: sono scene che si incastrano, pezzi di un mosaico che descrivono un mondo invisibile eppure presente, surreale eppure (o forse per questo) in grado di mettere in discussione la normale esistenza. Un altro aspetto in comune è la lingua utilizzata: ho voluto arrivare all’essenziale, limare e asciugare, per permettere alle storie di brillare nella loro universalità, limitando al massimo la presenza di uno stile forzato che avrebbe probabilmente distolto l’attenzione e reso artificioso l’intento.

Reale e surreale: cosa preferisci?
L’esperimento è stato proprio questo, cercare di abolire la distinzione tra reale e surreale, tra vero e verosimile, tra concretezza e fantasia. Credo che stia nella sensibilità di chi legge optare per una versione o per l’altra, nella visione del mondo che ognuno di noi si è costruito. Per quanto mi riguarda, da ateo, sento di dover/poter decifrare la realtà (comune) attraverso il filtro del fantastico, ipotizzando situazioni al limite, domandandomi cosa succederebbe se… La letteratura, come diceva Borges, è sempre stata fantastica: il realismo è un piccolo intermezzo nella sua storia millenaria. Potremo forse osare di più e dire che la realtà è “fantastica”: il realismo è solo la pretesa, umana e struggente, di volerla decriptare e quindi controllare.

Quali sono le storie che vale la pena di scrivere (o leggere)?
Le storie che vale la pena di scrivere sono quelle che, magari confusamente, sentiamo di voler leggere. Quelle che hanno acceso immediatamente in noi la voglia di raccontarle, di trasmetterle e condividerle. Sono le storie che parlano di noi pur non parlando di noi, che scavano dentro, che ci permettono di esercitare empatia, di dare dignità all’immaginazione così continuamente e tenacemente mortificata nel quotidiano, che ci portano in un altrove talmente distante da farci comprendere, come un’epifania, il nostro hic et nunc di viventi.

Sono storie che scriviamo al di là dei gusti del momento, delle aspettative, delle mode. Storie che, per me, possano aprire uno spiraglio nella comprensione dell’universo e nella pratica della felicità. Sono storie che hanno un fine: raggiungerci, avvicinarci.

 Cosa ti ha spinto a diventare scrittore?
Questa è la domanda più difficile del mondo: presuppone una scelta consapevole, ma che forse non lo è del tutto. Scrivere è un processo, che si nutre di tante facoltà umane (vedere, leggere, sperimentare, pensare, ricordare, amare, camminare…) e si cristallizza in un atto razionale (che ha radici nell’inconscio). Mettere sulla carta parole, una dietro l’altra, e volere che poi queste parole si trasformino in immagini e pensieri nella mente di altre persone, è forse una sublimazione incredibile di un bisogno di contatto. Non soltanto con l’esterno.

L’impulso a scrivere non so quanto sia consapevole, quello che può e deve essere gestito con il pensiero è l’atto concreto. Affinare una propria lingua, orientarsi su una poetica, attraversare un certo tipo di vite, mettere in scena determinati scenari: questo sì fa parte della scelta di chi scrive. Ed è una scelta di verità e rispetto verso sé stessi prima di tutto.

Esiste il lettore ideale? Chi è?
Esiste, sì. Il lettore o la lettrice ideale è una proiezione nostra, un’ombra dietro la schiena, una voce flebile con cui dialoghiamo, sono occhi stupiti, sorrisi rinfrancanti, emozioni suscitate. Colui o colei a cui ci rivolgiamo quando scriviamo, – il suo volto è sfocato, o ci dà le spalle – è un po’ amico e un po’ estraneo (alla Whitman), siamo noi (una parte di noi) e insieme è altro da noi (ciò che non saremo mai). Non corrisponde a nessun essere umano realmente esistente, e di questo è facile avere controprova: quando incontro i miei lettori, ognuno mi mostra un’interpretazione dei miei scritti che non coincide mai con la mia. Spesso si avvicina, si sfiora, ma non è mai la stessa: di questo scarto di aderenza bisogna tenere conto, esiste ed esisterà sempre, ma non è una barriera, anzi, è lo spazio in comune da dividere con chi legge.

C’è un personaggio della letteratura, del cinema o della tv a cui senti di assomigliare? Se sì, quale e perché?Per me è stato decisivo leggere, ad una certa età, Henry Miller. Ho amato lo scrittore e il personaggio che metteva nei libri. Io adolescente della Torino anni ‘90 sentivo di avere un contatto privilegiato con un uomo della New York degli anni ’20, che cercava con tutte le sue forze di diventare scrittore, cioè quello che in definitiva è sempre stato. E lo faceva vivendo ogni tipo di esperienza, transitando dal dolore alla felicità ed accogliendo tutto con la stessa voglia di vivere e riconoscenza. Henry Miller mi ha guidato in un percorso di crescita, nella vita come nella scrittura e nella lettura, e credo di dover essergli grato in eterno per questo. Non so se vorrei assomigliare a lui, tante cose ci separano, ma quello che mi è piaciuto è stato parlarci insieme: se ripenso a quei momenti, ancora ricordo bene come sentivo mie le sue emozioni e come fosse chiaro e salvifico che si stesse rivolgendo a me.