Sono quasi 20 anni che Jonathan Julian Hopkins fa sognare il mondo creando dimensioni parallele fatte di suoni e visual. Astro, festival che presentava una line up forte di una sua identità sonora – Boys Noize – e talento – George Fitzgerald e Indian Wells –  è riuscito a (ri)portarlo in Italia per un live che ha lasciato ampio spazio ai brani tratti da Singularity – uscito il 4 maggio per Domino Records – e noi siamo andati a vederlo per raccontarverlo.

Una cosa dobbiamo metterla in chiaro: Jon Hopkins è uno dei geni contemporanei dell’elettronica. In meno di 20 anni di carriera ha suonato con Imogen Heap e Röyksopp, prodotto dischi con Brian Eno, arrangiato brani come Life In Technicolor e The Escapist per i Coldplay e scritto innumerevoli colonne sonore.

Da un artista di questo calibro è normale aspettarsi grandi cose. E così è stato. Alle 23.00 in punto Jon si presenta sul main stage del Magnolia accompagnato da fumo viola ed una linea verde proiettata dietro di lui come fosse l’orizzonte. Poche note, lente e timide, ed i visual iniziano ad animarsi. La linea verde diventa un’onda, più onde, un mare sintetico che cresce ed esplode ed invade il pubblico. Dopo un’intro di 5 minuti sul mega-schermo prende forma a poco a poco l’universo parallelo in cui è ambientato Emerald Rush, primo singolo estratto da Singularity che dà il via al concerto.

Come ha spiegato lui stesso in un’intervista ad NME, l’album è nato con l’obiettivo di creare un viaggio multisensoriale, qualcosa che possa essere ascoltato come un unico brano che cresce e si sviluppa come una creatura primordiale, partendo da melodie semplici per arrivare ad esplosioni di suoni e colori. Pare subito chiaro che nel suo mondo tenere fermi i piedi, controllare le spalle e fermare la testa che fa su e giù è assolutamente impossibile. Siamo circondati da gente che ciondola felice con un sorriso stampato in faccia, nonostante le zanzare si stiano dando da fare.

L’elettronica raffinata ed “intelligente” che abbraccia l’ambient, i synth che stringono la mano al pianoforte, le voci campionate che si sovrappongono alla cassa dritta distorta. È tutto magnifico. Arrivano Everything Connected, sempre da Singularity. Poi un salto nel 2013 con Open Eye Signal e Collider, tratti da Immunity, l’album che ha consacrato il giovane compositore Britannico a livello mondiale. Poi Singularity, che da il nome all’album, suonata in una versione extended di quasi 10 minuti.

Con Neon Pattern Drum il concerto si conclude (inaspettatamente) dopo appena più di un’ora, lasciandoci con la sensazione di essere ricaduti sulla Terra dopo un viaggio di migliaia di km. Ma siamo lì, ci guardiamo per capire se è davvero tutto finito e qualcuno inizia a confessare che “l’ho visto al Primavera… anche lì un’ora scarsa…”. Ok, festa finita. Certo che salutarci sulle note di Light Through The Veins per tornare a quel lontano 2009 sarebbe stato più poetico… ma va bene così. Come diceva De Andrè, la ragione del viaggio è viaggiare, e stasera Jon Hopkins ce l’ha ricordato.

 

 

Foto di Cover @ Archivio – Ph.Marco Iemmi