Sono stato diverse volte a Parigi ma tornarci è sempre come la prima volta e dopo un lungo viaggio notturno in treno, arrivato alla Gare de Lyon, sistemato le valigie in hotel, a poco passi da la Grande Halle de La Villette – location scelta nuovamente come sede del Pitchfork Music Festival -, in una soleggiata e neanche troppo giornata autunnale, per essere sicuro di essere sbarcato nella Ville Lumiere, decido di godermi un “antipasto” parigino. La bellezza è evidente in ogni momento, in ogni luogo, che tu stia passeggiando dal Trocadero alla Tour Eiffel , che tu sia a bordo Senna costeggiando il Grand Palais, che tu faccia tappa nello shop Maison Kitsune, sorseggiando poi un coffee americano nell’adiacente Cafè del brand sotto i portici dello storico Jardin du Palais Royal.

Si fa velocemente sera e faccio ritorno nel 19° arrondissement all’interno di quello che era il più grande macello d’Europa. La location era di per sè incredibile anche solo vista in foto, dal vivo è maestosa e tracima storia. Ci sono enormi travi in ferro battuto che adornano il soffitto di vetro che copre l’intera struttura massiccia. Senza dubbio mozzafiato. L’unica cosa che ti permette di vedere una fine nella sala della Grande Halle, sono i due palcoscenici posti agli estremi, uno fronte all’altro, in una sorta di back to back in cui si sono alternati in questo DAY1, con impeccabile timing, gli headliner The Voidz capitanati dal cantante Julian Casablancas (The Strokes) e il divertente e contagioso Mac Demarco a colpi rispettivamente di QYURRYUS e Salad Days.

La mattina dopo sono andato nel cuore del quartiere underground Marais, dove le botteghe di una volta ora ospitano i brand più affermati nel segmento streetwear, e faccio obbligatoriamente tappa, quasi in adorazione, all’IMPRIMERIE, luogo dove viene lanciato, con un party, manco a dirlo “fighissimo”, ogni nuovo numero della rivista SHOES UP: la più autorevole in Francia e non solo per tutto quello che riguarda la street culture, che siano scarpe, che sia musica, che sia arte.

Decido di tornare di fretta verso il Festival per il secondo giorno che, fin dall’apertura delle porte, offre una line up incredibile. Nessuno show è perdibile. Sul palco è salito Boy Pablo, a lui l’onere e l’onore dell’overture, che conquista il pubblico già presente con un live se pur breve culminato in applausi sulle note di Losing You. In sequenza, che si dimostrerà non sempre coerente nel salir di ritmo, arriva la giovane promessa, di casa Domino Records, Tirzah e il suo sound alternative è accostato ai suoni di Tricky come a quelli di Fka Twigs, ma in realtà la cantautrice britannica vive di luce propria in una dimensione tutta sua, misteriosa e allo stesso tempo affascinante, dove preferisce far parlare i suoni e poco il linguaggio del corpo, forse per timidezza scenica o forse a dire “non guardate me, ascoltate la mia musica e lasciatevi trasportare”. Dopo di lei onstage le rock band Dream Wife e Car Seat Headrest alternati ai suoni pop electro funk danzerecci del giovane francese Lewis OfMan e dei CHROMEO.

Nonostante il loro live arrivi presto, sono le 20.30, possiamo considerarli tra gli headliner di questo Pitchfork. Il duo canadese, non bazzica spesso in Italia, ma da queste parti invece è una garanzia, grazie a qualche siparietto divertente, al loro look e ai singoli Jealous, Night by Night, Bonafied Lovin che agitano il pubblico.

Dopo un infuocato show dei giovani parigini Bagarre, in perenne lotta tra rap electro punk di notevole impatto, arriva invece onstage il synth pop degli attesi CHVRCHES capitanati dalla piccola ma grintosa vocalist Lauren Mayberry che mette in scena con The Mother we share, Never ending circles e Miracle il meglio dei tre album della band scozzese lanciata dai Depeche Mode che se li portarono in tour nel 2011, ancora sconosciuti.

Ma i miei riflettori, nonostante una line up ricca di headliner, erano puntati sul closing del dj e produttore haitiano-canadese Kaytranada, che anticipato dal live soft di Blood Orange, ha portato in scena i pezzi del suo album 99,9% alternandoli a gemme di Janet Jackson e Donna Summer, per il delirio collettivo dei presenti. Ogni suo set, come mi avevano raccontato, è davvero memorabile.

Giorno tre. Dopo un passaggio alla Fondazione Luis Vitton, dov’era in corso la mostra dedicata ai due (prematuramente scomparsi) artisti Jean Michel Basquiat e Egon Schiele, unica in Europa per opere esposte, mi attende l’alieno Bon Iver e il suo spettacolo dal vivo assistito da una band di nove elementi che nonostante la dimensione live sia sulla carta differente dal progetto digitale, riesce nel difficile intento di non destabilizzare la natura delle sue canzoni, cosi come adorate soprattuto nell’ultimo album 22, A Million. Justin Vernon, il nome più importante dell’intera edizione del festival e il suo equipaggio hanno suonato per un’ora e mezza a corrente alternata, perché bisogna ammetterlo, a tratti ci si perde nel suo mondo “lento”, ma detto questo, la presenza scenica e le tinte sonore oltre che le doti vocali, sono uniche nel genere.

Dopo che Bon Iver lascia il palco, la notte si trasformò in una festa. Jeremy Underground apre con un set house incanlzante prima di cedere la consolle ad un altrettanto pazzesco DJ Koze alle prese con un sound Tropicale e dark allo stesso tempo, accarezzati e un attimo dopo scossi da bassi vibranti, lascio questo luogo incredibile ch’è la Grande Halle de La Villette, consapevole, lo spero, di poter riassaporare tutto questo clima, con altri grandi artisti. Che sia solo un arrivederci, o meglio au revoir, alla prossima edizione 2019.

 

Photo courtesy by Pitchfork Festival press