Ormai lo si può dire a voce alta: è un gran bel momento per la musica italiana femminile, intesa, ed è tristemente ovvio, come quella che rimane sempre, cocciutamente fuori dagli scenari ad alto tasso di visibilità, vedi talent e vedi Sanremo. Un’ombra di rammarico, questa, che non ci impedisce, però, di alzare i calici e brindare a lavori tosti, ispirati ed affascinanti, nonché scritti e realizzati con un bel nervo e il polso saldo della situazione, di artiste come L I M, Birthh, Giungla e, last but not least, colei cui parliamo oggi: Viola D’Acquarone, in arte Veyl. Lo scorso 9 dicembre questa producer, cantante, autrice, thereminista con un passato da pianista, ha pubblicato per Elastica Records un Ep intitolato Ayorama che ha dentro tanta classe ma pure una bella tavolozza ricca di sfumature. C’è la venatura più trip hop, c’è l’ambient, la dark electronic, qualche melodia pop e pure l’incursione, ben riuscita, del rap di Uncle Mag. Insomma, un primo lavoro da solista che piazza già la giovane Veyl tra le artiste da tenere d’occhio per tutto l’anno a venire. Di questo, del potere terapeutico delle canzoni e di sogni di collaborazioni abbiamo parlato con Viola, ricca di garbo quanto di talento.

Che cosa hai messo, a livello di pensieri ed emozioni, dentro ad Ayorama?

Più sentimenti che ragionamenti. Tutti i testi sono molto personali, molto intimi e legati all’urgenza di sviscerare uno stato emotivo. Non riesco a scrivere a tavolino, quindi appena ho un impulso scrivo una frase dove capita e poi ci costruisco intorno il resto. Nell’ep ho messo cose che ho vissuto e sentito e che in altri modi non riesco a raccontare, quindi posso dire che fare canzoni ha, per me, un buon fine terapeutico!

Che cosa significa Ayorama? C’è una storia dietro questo titolo?

Sì: Ayorama era la barca di mio nonno ed è un termine inuit che significa “le cose della vita che non possiamo cambiare”. Mi piace la parola in sé e mi piaceva l’idea che fosse legata alla mia famiglia e mi piace il senso di arrendersi, ogni tanto, all’impossibilità di poter governare il cambiamento.

Come vedi la scena musicale femminile di oggi?

Molto bene: credo stiano venendo fuori dei progetti genuini, soprattutto nell’elettronica che è il genere che ascolto di più. Vedo meno emulazione dell’estero e più spontaneità. Per fare dei nomi, mi piace molto L I M, ma anche Petit Singe, così come Birthh.

La collaborazione più stupefacente del disco è quella con Uncle Mag: com’è andata?

Non avevo assolutamente previsto di aggiungere una parte rap a un mio pezzo, poi ho scoperto la sua musica tramite un’intervista on line e ho provato a contattarlo. Strano a dirsi, ma mi ha risposto subito e sono anche andata a New York per conoscerlo, registrare insieme e tutto è scivolato così bene che abbiamo anche girato un video che uscirà a breve.

E invece come ti sei avvicinata al theremin?

Il therenim l’ho conosciuto a un concerto di Vinicio Capossela, dove suonava Vincenzo Vasi, il più grande thereminista in Italia, ma forse nel Mondo. Dopo quel live mi sono prima documentata e poi avvicinata a questo strumento incredibile, di cui in poco tempo mi sono follemente innamorata, specie perché raccoglie tutti i tuoi movimenti e quindi per forza di cose si instaura un rapporto davvero viscerale. Se quando lo suoni sei nervosa lui lo sente e traduce quel nervosismo in suono, in questo è spietatamente sincero.

Domanda da profana: quanto è difficile suonarlo?

Eh, abbastanza. I primi periodi ho fatto impazzire mia mamma, perché riuscivo a produrre solo suoni agghiaccianti se non inquietanti. Per i primi mesi non ho tirato fuori nulla di vagamente ascoltabile, ma con un grande sforzo di concentrazione sono pian piano riuscita a trovare il mio feeling con lui. L’empatia è tutto, la concentrazione è cruciale, è quasi qualcosa di meditativo più che qualcosa di tecnico.

Come stai vivendo i tuoi primi live da sola (Veyl ha fatto parte della band Nihil Est)?

In questi anni passati a scrivere e produrre brani non ho suonato dal vivo, quindi c’è stata una pausa lunga lontana dal palco. Tornare a fare live, per me che sono parecchio timida, è stato inizialmente molto difficile. Poi da grossa fatica che è stata le prime volte sto notando con piacere che sta diventando man mano qualcosa che mi dà grande gioia. Superata, insomma, la prima fase di ansia e paranoia, me la sto finalmente godendo.

Visto che ami le collaborazioni, due nomi, uno abbordabile e uno stellare, con cui sogneresti di lavorare?

Tra gli italiani Not Waving e Niagara senza dubbio. Mi piacciono entrambi tantissimo. Andando verso le stelle, invece, ti dico Nicolas Jaar e gli Autechre.