Amano definirsi “esploratori notturni”, Marco De Rossi e Giorgio Trez, aka i Wora Wora Washington, e a noi pare la più calzante delle descrizioni. Perché lì, nella curiosità che è insita in ogni esploratore e nell’amore per le suggestioni che salgono dopo il crepuscolo, c’è tutto il cuore della musica di questo duo che volteggia tra l’indie wave e quella che loro chiamano “evocative wave”. A poco più di una settimana dall’uscita del loro terzo e nuovo album intitolato Mirror, i veneziani WWW ci hanno raccontato sia il percorso che, dal 2009 a oggi, li ha portati a capire che, almeno per loro, musica significa «fare ciò che ti fa sentire meglio» ma anche la loro visione sci-fi dai tratti catastrofici (ma non pessimistici, leggete e capirete) del futuro della società. 

Come sono nati i WWW e quali radici musicali, simili, identiche o, invece, del tutto diverse avete fatto confluire nel progetto?

Le nostre radici musicali sono simili e, sintetizzando al massimo, vicine all’indie rock, il dark/punk, l’elettronica. Gli ambienti che frequentavamo erano gli stessi, ma solo il caso ha fatto sì che ci ritrovassimo tra le mura della stessa saletta. Da qui abbiamo dato fondo più allo studio delle sonorità che alla reinterpretazione del già ascoltato, facendo fluire la musica piuttosto che imbrigliarla in qualche schema scopiazzato. Difficile, quindi, dire cos’è confluito nella nostra musica dal nostro passato, perché non c’è mai stata una propensione ad un particolare genere. Premesso ciò, è vero che siamo sempre stati entrambi amanti della wave e del synth punk degli ’80 ed i richiami a questi echi sono presenti in tutti i nostri lavori.

Da che cosa nasce la vostra urgenza di comporre musica?

La parola urgenza ci suona troppo psichiatrica, preferiamo dire bisogno. La musica, si sa, regala emozioni a chi le sa cogliere e la composizione amplifica queste sensazioni, perché ti fa attraversare gli ambienti emozionali che si desidera visitare. Come molti altri artisti suoniamo alla ricerca di emozioni, non per urgenza ma per bisogno di quel trasporto che ci porta a continuare a scrivere.

Siete veneti: il vostro è un territorio musicalmente/artisticamente fertile o è stato difficile trovare spazi e occasioni per iniziare a farvi conoscere?

Suoniamo dal 2009, ed in questi anni ci siamo ritagliati delle belle e molto sudate soddisfazioni, perché è tutto fuorché semplice trovare lo spazio che ci si sente di meritare. Siamo, però, convinti che la difficoltà sia il miglior metodo per alzare l’asticella della qualità della musica: la difficoltà fa certamente incazzare, ma costringe ad essere autocritici e rivedere i propri piani, in più affiata le band e non le fa annoiare.

Per quanto riguarda il Veneto, purtroppo non vive più i fasti delle band fenomenali degli ’80 e ’90. C’è stata un involuzione artistica, legata, a nostro avviso, alla fitta rete di locali esplosa con il nuovo millennio, ed alle discutibili scelte di promoter improvvisati. Sia chiaro: esistono ancora delle perle in casa nostra, di quelle che meriterebbero ben altre scene, ma qualunque musicista, intimamente in cuor suo, percepisce una inconfessabile decadenza artistica piuttosto diffusa, sia qui che nel resto d’Italia.

Che cosa ha ispirato Mirror? Qual è la sensazione, il pensiero preponderante che ci avete messo dentro?

Quando 2 anni fa ci sedemmo al tavolo per discutere sul futuro dei WWW, analizzammo il passato per trovare una strada per il rinnovamento. Quel giorno ci fu chiaro che il fattore tempo era stato il nostro più grosso ostacolo, nel senso che la fretta e le scadenze non portano a nulla di buono. Così abbiamo deciso che il nuovo progetto non avrebbe più avuto alcun cronoprogramma. Avere la possibilità di poter non concludere, di non dover rendere conto, senza aspettative dall’esterno ci ha portato ad un processo compositivo per certi versi opposto da quello classico. Potremmo dire che il mantra degli ultimi 2 anni è stato: “fa ciò che fa sentire meglio te”. Per questi motivi Mirror è un riflesso della musica, quella architettata e pianificata e non necessariamente ispirata dall’effimero.

A livello sonoro, invece, in che cosa è diverso rispetto ai vostri lavori precedenti?

Rispetto al passato non ci sono più ritornelli ammiccanti, non ci sono più treni di batterie rocambolesche né tappeti di chitarre taglienti. Abbiamo abbandonato lo shoegaze, il noise, per calcare pesantemente la mano nell’evocatività della musica. L’abbiamo fatto per aprire quella porticina dello stanzino e dare gran respiro alle canzoni che ora sono immerse in maestosi ambienti aperti. Voci ferme e presenti ci raccontano il resto della storia.

Lo specchio è oggetto assai simbolico della società di oggi:siamo circondati di specchi, anche deformanti o ingannevoli come quelli dei social network. Come vivete questo narcisismo imperante?

Il narcisismo del web esiste e ci è indifferente. Da amanti della fantascienza cinica, invece, pensiamo che il narcisismo è un sintomo del conformismo e il conformismo dominerà il mondo, com’è evidente dalla globalizzazione. Di conseguenza non ci si può che aspettare nel prossimo futuro una società sempre più narcisista, ma fortunatamente una società votata al conformismo e al narcisismo non può far altro che implodere nel suo specchiarsi a causa della mancanza di un confronto col diverso, quindi di esperienza quindi di progresso. Certamente ci sarà una catastrofe, si rimarrà in pochi, o addirittura soli se non Uno, ma… Sempre meglio che mal accompagnati, no? A proposito del narcisismo, in Mirror alcune voci narranti intimano al bello della stranezza, della singolarità, dell’originalità perché il pensiero diverso è attraente, il pensiero conforme autoreferenziale già lo conosciamo.

Che storia c’è dietro all’artwork della copertina?

Nella copertina siamo rappresentati all’interno di una capsula spaziale intenti allo studio e alla ricerca musicale in microgravità. Con il grafico Marco Lezzerini abbiamo voluto rappresentare il nostro percorso per il compimento di questo album, e per far ciò abbiamo attinto alle illustrazioni della propaganda spaziale russa degli anni ’50, ovvero la rappresentazione dell’immaginario pseudo-scientifico che avevano gli entusiasti terrestri all’epoca della corsa allo spazio pre Gagariniana. Abbiamo scelto quest’immagine in particolare perché riassumeva con pochi tratti il nostro percorso degli ultimi due anni: lo studio/laboratorio, la scienza, l’ignoto, l’ingegneria, l’ambizione, la sospensione nel tempo, il viaggio verso l’ignoto.

Vi sentite parte di una scena musicale o siete più cani sciolti?

Ci piacerebbe avere il titolo di esploratori notturni.

Che rapporto avete con il live: vi carica, vi snerva, vi agita, vi stanca?

Preparare un live ed esibirsi distrae dall’ordinario. Se si è bravi è pure concesso di toccare con la musica la sensibilità e l’intimità di alcune, rare, persone. Per rispondere: sì, ci carica.

Infine, chi amate e ascoltate, oggi, tra gli italiani?

Tanti, ma in particolare Fuzz orchestra, Vegetable g, Bologna violenta e Management del dolore post operatorio.

 

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