A volte, una canzone è così intensa che non basta ascoltare. Non basta premere play in loop, né ascoltarla con le cuffie a palla alle 3 di mattina – cosa che consiglio comunque vivamente, nel caso abbiate voglia di esperienze particolarmente masochistiche o profonde. Quando il legame tra ascoltatore e musica è così profondo c’è bisogno di immergersi totalmente nel suono, circondarsi e affogare in esso: una cosa fisicamente possibile forse solo durante un concerto; quell’amore si concretizza nel basso pompato nei polmoni, nelle urla tra una canzone e l’altra, nei testi cantati a occhi chiusi o guardando il cantante, nella speranza di un fugace eye contact. Abbiamo avuto il privilegio di vivere quest’esperienza con i Caveleon, in una serata che sembrava avesse qualcosa di magico nell’aria, all’Arci Bellezza di Milano per il release party del nuovo album.

Se volessimo descrivere visivamente il loro ultimo disco, “Sometimes I’m Still Drowning”, lo potremmo definire come un’opera che unisce la pittura paesaggistica allo stile del capriccio: spiegato in termini semplici, edifici antichi monumentali ma rovinati dal tempo, avvolti da rovi e piante di ogni tipo. Un paesaggio all’apparenza desolato ma decisamente suggestivo: ci troviamo davanti una natura rigogliosa, potente, come se volesse ricordare all’uomo che l’unica opera umana destinata a permanere nel tempo è l’arte. In breve, estremamente affascinante. Che, tra l’altro, è forse uno dei principali motivi per cui l’uomo si rifugia nell’arte: eternalizzare sé stesso, i pensieri e gli stati d’animo, dando immensa fiducia alla propria arte di tramandare queste esperienze al futuro. La stessa fiducia che i Caveleon ripongono l’uno nell’altro: come ci raccontano loro stessi, c’è una grandissima facilità di comunicazione tra questi quattro ragazzi. Comunicare tramite il linguaggio musicale per loro è un’esperienza che risulta quasi naturale: e come pensareil contrario, se tutti e tre utilizzano nello stesso istante il termine “fluido” per descrivere questo rapporto?

Il che in un primo momento sorprende, considerando la varietà dei loro background: alla domanda “qual è album che ha acceso la scintilla del voler fare musica in voi?”, Leo risponde con il “White Album” dei Beatles, Agostino con “Led Zeppelin IV”. Giulia, invece, ha capito di voler fare della musica un lavoro in un periodo in cui ascoltava particolarmente “Forever Ago” dei Bon Iver. Nonostante queste apparenti differenze, sono l’uno l’estensione dell’altro, pur mantenendo ciascuno una propria identità: come quattro alberi le cui radici s’intrecciano tra di loro, fino al punto da non distinguere più la fine di uno e l’inizio dell’altro; fanno parte di un unico, grande ordinato intreccio, ma restano ben distinti. È così che allo stesso modo ogni membro dei Caveleon porta qualcosa di unico alla band, facendone parte integrante e allo stesso tempo distinguendosi per qualcosa in particolare; la loro è dunque una fiducia speciale, che va ben oltre la semplice chimica. Si affidano a vicenda i propri sogni, i propri obiettivi, la stessa voglia di eternalizzare quei segreti e quei pensieri che altrimenti andrebbero probabilmente persi nel vento. Un rapporto quasi simbiotico, unico, diverso da qualsiasi cosa che si possa sperimentare nella vita.

E se questo già si capisce dai primi ascolti di “Sometimes I’m Still Drowning” e dell’eponimo EP, permettetemi di dirmi che dal vivo è ancora più immediato ed evidente: a notare gli sguardi d’intesa, la complicità, la naturalezza di questi ragazzi nell’esibirsi insieme viene fin troppo facile pensare che lavorino insieme da una decina d’anni – sconvolgente pensare che il progetto Caveleon sia nato solo tre anni fa. Le voci di Leo e Giulia si completano e si esaltano a vicenda contemporaneamente, la batteria di Agostino contribuisce a creare talvolta tensione, talvolta un’energia pazzesca, accompagnata dalle ipnotiche tastiere di Federico.

Anche in live, è evidente la grande cura ai dettagli dietro ogni lavoro dei ragazzi, quanto sia fondamentale il contributo di ciascuno di loro: la stessa che caratterizza “Journey”, definita dal gruppo un “biglietto da visita per il loro universo”; un grande riassunto del loro percorso, da dove sono partiti e dove vogliono arrivare. Semplice ma maestosa, risultato eccezionale di una grande esperienza e di un’immensa voglia di farsi conoscere di quattro ragazzi che parlano la stessa lingua, per quanto non sia parlata. Proprio come un tempio greco circondato dalla natura, o una balenottera immersa in un bosco, la loro musica nasce per chi non si accontenta di ammirare l’arte: a volte, per apprezzarla davvero, occorre davvero affogare nella bellezza.