Lontana dall’intento di scrivere un masterpiece della letteratura italiana, ho voluto comunque riprendere dal buon vecchio Thackeray (e non da Marchetti, attenzione) la serialità delle narrazioni che si susseguono in Vanity Fair e su quella falsa riga costruire un altro tipo di storie.
Anzi, più che storie, le mie vogliono essere delle immagini che cercano di legare alla musica di un brano le sue possibili evocazioni di ambito stilistico, tale che, in questa fiera della vanità, a sfilare siano gli artisti vestiti delle loro note, dei colori invisibili che solo con un orecchio attento si possono percepire.
Sulla passerella della vanità, lasciamo che a succedersi sul catwalk (di artisti e musicisti), sia invece la nudità dell’indie.
Gaia Banfi, La Maccaia
Con “La Maccaia”, Gaia Banfi (cover foto @Gloria Capirossi) consegna al pubblico un’opera densa e raffinata, che profuma di mare e nebbia, di ricordi sospesi e introspezione gentile. Ogni brano è un piccolo quadro impressionista, in cui la voce calda e ipnotica di Gaia guida l’ascoltatore tra malinconie sottili, amori liquidi e folgorazioni interiori. Il sound alterna momenti eterei a improvvise ruvidezze, come scogli che affiorano dalla marea. L’intero disco è avvolto da un’atmosfera sospesa e simbolica, dove la Maccaia – nebbia genovese carica di senso – diventa metafora di un’esplorazione intima e universale. Un esordio potente e delicato, da ascoltare con occhi chiusi e cuore aperto.
Davide Amati, Campi Elisi
“Campi Elisi” è un’esplosione di carne, sogno e distorsione: un hard rock viscerale che mescola rabbia e trascendenza con sorprendente equilibrio. Davide Amati scrive e canta come se fosse in bilico tra l’inferno e il paradiso, sospeso tra un riff tagliente e una carezza melodica. La produzione incalza, la gran cassa pulsa come un cuore in fuga, mentre le chitarre si muovono tra psichedelia e noise, spingendo il pezzo in territori quasi sacrali. Il ritornello apre uno squarcio onirico nella furia sonora, trasformando il dolore in desiderio e il desiderio in resa. “Campi Elisi” è catarsi elettrica: un viaggio che inizia come grido e finisce come abbraccio.
Tare, Costeene
“Costeene” è un’esplosione lisergica di groove e immaginazione, un western cosmico dove drum’n’bass e glitch cavalcano tra stelle e deserti digitali. I Tare creano un’esperienza più che un brano: un decollo sonoro ipercinetico, dove la batteria e il basso si rincorrono tra spasmi ritmici e visioni pulp. La tecnica è chirurgica, ma mai fredda: ogni passaggio trasuda ironia, sudore e una certa eleganza sghemba da film cult anni ’70 rivisitato in chiave futuristica. Emozionante come un duello all’alba su Marte, “Costeene” ti trasporta altrove — dove il groove è legge e l’unica direzione è l’altrove.
C+C=Maxigross, Nuova Era Oscura Vol.1
Un falò acceso nel buio, dodici storie sospese tra sogno e realtà: “Nuova Era Oscura – Vol. 1” è un’opera corale, un viaggio notturno in cui l’unica bussola è l’Arte. Il collettivo veronese espande i propri confini sonori con l’ingresso di Anna Bassy e Luca Sguera, aggiungendo sfumature jazz e sperimentali a un sound già caleidoscopico. Il nuovo disco è una favola contemporanea che riflette la nostra epoca incerta, trasformando il disagio in poesia. Come l’alba dopo l’oscurità, la musica dei C+C=Maxigross non dà risposte, ma illumina il cammino.
COOPER AND THE NIGHT OWLS, Pistacchio
Surreale e ipnotico, “Pistacchio” di Cooper and the Night Owls è un viaggio psichedelico che mescola funk, elettronica e richiami orientali in un turbine sonoro avvolgente. Il banjo-guitar dipinge scenari esotici, mentre il groove sinuoso trascina l’ascoltatore in una dimensione sospesa tra sogno e allucinazione. C’è qualcosa di rituale nel suo incedere, un mantra visionario che oscilla tra la ricerca e la dispersione.
Kokoonn, You Know Me
“You Know Me” di Kokoonn è un abbraccio intimo e avvolgente. La sua voce, calda e delicata, si muove su una produzione minimale che lascia spazio all’emozione pura, senza artifici. Il brano è un inno alla connessione autentica, a quei legami in cui non servono maschere né parole, perché l’altro sa già tutto di noi. Tra chitarre soffuse e una melodia eterea, “You Know Me” scorre come una confidenza sussurrata nel cuore della notte, lasciando sulla pelle la dolcezza della comprensione reciproca. Un debutto che è promessa di bellezza e profondità.