Piers Faccini è partito per un viaggio nel tempo ed è tornato carico di storie da incasellare nel suo nuovo disco I dreamed an island in uscita il 21 ottobre per Beating Drum. Un album che è anche un blog, www.idreamedanisland.com, zeppo di recording session, ispirazioni, improvvisazioni, artworks che danno l’idea di quanto vasto sia il mondo di questo cantautore, poeta, pittore nato a Londra da padre italiano (ma con nonni russi da parte di mamma), trasferitosi, come dice lui stesso «provvisoriamente da anni», nel sud della Francia e con un amore spassionato per l’Africa. Ci ha raccontato come, un giorno, ha deciso di guardarsi indietro, per cercare nel passato esempi di «una modernità fatta di tolleranza e coesistenza che oggi sembra un’utopia».

L’isola del titolo è un luogo fisico o una metafora?

Entrambe le cose. Mi sono ispirato ad alcuni momenti della storia medievale, per esempio la corte di Palermo del 1200 e l’Andalusia di fine 1800, che hanno visto la coabitazione pacifica e serena di popoli di 3 religioni diverse e che parlavano 3 lingue diverse. La mia isola, oggi, è un sogno, un’utopia, ma è qualcosa di reale, accaduto in passato.

La storia ti ha sempre appassionato così tanto?

Sì, ma non al punto in cui mi coinvolge oggi. Questo voler guardare alla storia è arrivato come reazione al fatto che ci dobbiamo confrontare con tante cose stupide, tante frivolezze, tanti politici che le sparano grosse. Ecco, ho avuto voglia di cercare esempi veri che potessero dire: siamo stati meglio di così.

Credi nel potere della musica di cambiare le coscienze delle persone?

Sì, anche se sono consapevole che non ha un potere sulla massa. Credo, però, che possa agire sulle singole persone e cambiarle, questo è il potere dell’arte. Quando tu leggi un libro ti commuovi, ti senti toccato, poi ne parli con altri e li convinci a leggere quelle pagine. Idem per i dischi: è un dialogo individuale tra chi lo ha fatto e chi lo ascolta ed è un dialogo molto prezioso, che se si accende può fare nascere pensieri nuovi, diversi, magari rivoluzionari. La musica, nella sua storia, è una continua conversazione tra culture, genti, radici diverse.

Anche tu sei un incrocio di culture diverse: musicalmente che cosa ha comportato?

Io sono cresciuto in Inghilterra, quindi quello che ascoltavo da adolescente era abbastanza tipico della mia generazione (sono nato nel 1970), quindi il primo grande amore sono stati gli Smiths. Poi mi sono appassionato ai vinili, che trovavo a poco perché tutti volevano i cd, e così mi sono fatto una collezione incredibile. Ho comprato e ascoltato di tutto, perché credo che più curioso di me al mondo non ci sia nessuno. Mi sono innamorato della musica africana, così come del country blues, fino all’ultimo innamoramento per la musica popolare italiana, così ricca e affascinante.

Hai un luogo del cuore in cui suonare la tua musica?

Amo suonare in acustico, senza microfono, in posti con una bella risonanza come chiese, stanze con riverbero. Questo modo di convivere la musica, senza amplificazione, le dà un senso molto privilegiato perché ognuno deve essere presente, con il telefono spento. Questa è la cosa che più vado avanti con questo mestiere e più ho capito di amare.

 

Qui “Bring down the wall”, il primo singolo estratto dall’album I Dreamed an Island out il 21 ottobre 2016