Si chiama Belvedere il terzo album di Galeffi che segna, finalmente, il ritorno del cantautore dopo due anni dall’ultimo disco Settebello. Belvedere è un album che, ancora una volta, non lascia per nulla indifferenti per  quella peculiarità, che lo contraddistingue sin dai primi lavori: il non volersi mai ripetere ma un continuo mettersi alla prova.

Un nuovo album – come suggerisce Galeffi – è come un “nuovo rinascimento”. Belvedere è un disco importante, figlio di un tempo sospeso che ha permesso a Marco di guardarsi dentro e, soprattutto, di riuscire a trasformare sentimenti, come
la paura o il dolore, nei dodici meravigliosi brani che compongono il nuovo disco. Lo abbiamo intervistato.

Ciao Marco, come stai? Il 20 maggio è uscito Belvedere. Com’è stato accolto il disco?

Il disco è stato accolto bene, sono molto contento e stanco. L’uscita di un nuovo progetto è simile alla nascita di un figlio e quindi vivo un momento di calma apparente.

Ami sorprendere i tuoi fan: tra le ultime sorprese, sei tornato sul palco del MI AMI. Come hai vissuto il ritorno alla musica live?

Sì, al MI AMI è stata una sorpresa last minute. Quest’anno, da metà marzo in poi (che è la data di uscita del primo singolo Appassire), con il management abbiamo deciso di anticipare un po’ sulle piattaforme digitali facendo ascoltare le canzoni in anteprima. È stato fatto anche per Divano Nostalgia, il secondo singolo che poi è andato in radio, e per l’anteprima del disco. Per l’occasione abbiamo noleggiato un pullman di quelli scoperti e abbiamo fatto un giro per Roma, facendo ascoltare il nuovo progetto ai primissimi fan che si sono iscritti. Anche per questa estate sono state programmate un paio di sorprese, come quella al MI AMI. È stato molto bello ritornare a fare musica dal vivo soprattutto per chi, come me, è stato un po’ sfortunato con le tempistiche del secondo album. Non suonavo da dicembre 2018, ovvero la chiusura del primo tour, del primo disco.

Un disco in cui osi negli arrangiamenti e nella scrittura. Ascoltandolo appare chiara un’evoluzione rispetto ai due lavori precedenti. Qual è stato il motore di una maturità artistica così evidente?

Non so, immagino che la maturità di questo album, sia dipesa dal fatto che ho 30 anni ormai. Se calcoliamo che un disco esce tendenzialmente un anno dopo che si scrivono le canzoni, soprattutto quando si fa del cantautorato, quindi poi devi registrare tutti gli strumenti, arrangiarle, produrle, riprenderle etc. Di sicuro la maturità potrebbe provenire dal fatto che comunque il lockdown, ci ha in qualche maniera messo alla prova interrogandoci sul nostro futuro. Nello specifico è stato difficile sapere di non potere fare il tour del secondo album e quindi anche questa sofferenza, questo rammarico, questa paura, sicuramente potrebbe avermi aiutato nella maturazione.

Qual è la prima canzone di Belvedere che ha preso forma?

La prima canzone di Belvedere è stata Dolcevita, che è nata appena dopo il primissimo lockdown, quello ferreo. Ero a casa di Leo Pari, che è co-autore del brano con Marco Proietti; insieme ci siamo messi a fare una session che inizialmente non prevedeva un cantante specifico. Durante la scrittura del brano, poi, ho percepito diverse che mi piacevano e che da tempo mi giravano in testa, tra cui il sound di arrangiamento un po’ french touch, così mi sono accorto che era una canzone che volevo tenermi. Ovviamente poi la stesura ha avuto un approccio più personale nella parte di scrittura – chiusura canzone. Nasce tutto da Dolcevita: da lì ho avuto l’entusiasmo di scrivere le altre.

Un disco contaminato, in modo accurato, che occupa un posto di esclusività all’interno della scena internazionale attuale. Tra i tuoi ascolti, chi è l’artista che ti ha ispirato di più?

In realtà non c’è un artista che mi ha ispirato più di altri. Di sicuro ti posso fare un po’ di nomi tra cui Sébastien Tellier, Léo Ferré, Yann Tiersen, Phoenix, Patrick Watson. Diciamo una serie di cantanti e canzoni che strizzano l’occhio alla Francia, sono state terreno fertile su questa contaminazione. Ho pensato che in Italia nessuno proponesse valzer o comunque sonorità francesi da chansonnier. Forse l’ultimo è stato De André. Direi che la sfida mi entusiasmava parecchio. «Portami il girasole impazzito di luce». È un verso di Montale che in sostanza esprime il sentimento della speranza, figurata dai petali del girasole puntati verso il cielo. Un po’ come il tuo Belvedere, se vogliamo, che guida l’ascoltatore a puntare lo sguardo verso le cose belle.

Considerando che la tua scrittura è colma di riferimenti culturali, mi chiedevo che rapporti hai con la letteratura?

In questo momento non ho un bel rapporto con la lettura, perché non ho tempo di leggere e dato che le do tanta importanza non mi va di non avere costanza. L’ultimo libro che ho letto è La città dei vivi di Nicola Lagioia, che racconta del
delitto Varani.

Per la ricerca del suono hai collaborato con più producer le cui produzioni esaltano la tua scrittura, senza mai snaturarla. Com’è stato lavorare con diversi produttori?

In realtà l’idea di lavorare con più produttori non è stata un’idea, ma è stata una conseguenza della pandemia, sia logistica che umana. Nel senso che io, che avevo fatto i primi due album con lo stesso produttore, per questo disco avevo voglia di
mettermi in discussione con tante persone.

Malinconia Mon Amour è un brano meraviglioso. C’è un motivo in particolare per cui questa canzone chiude il disco?

In tutti i miei dischi tendo a mettere nella prima traccia quella che per me è la più rappresentativa del disco. Nell’ultima, invece, metto la mia preferita o quella a cui voglio più bene. Alla fine, anche se vuoi bene a tutte, a una o due canzoni dai la lode. Malinconia nel momento in cui ho scelto la tracklist era la mia preferita, quindi l’ho inserita in chiusura. La stessa cosa l’ho fatta con Bacio Illimitato nell’album Settebello, mentre per un discorso di numeri Tottigol era la 10 del primo album, come giusto che sia.

intervista di Alessia Pardo

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