Tutto iniziò come dj a Milano e a Londra alla fine degli anni ’90, interpretando le scene musicali di Chicago, New York e Detroit e acquisendo uno stile internazionale capace di unire electro, hip hop, house, r’n’b e techno. In poco tempo diventa uno dei nomi più richiesti del circuito clubbing: dall’Inghilterra a Ibiza, da Mykonos alla Francia, senza dimenticare i Magazzini Generali e il Plastic di Milano, la base da dove partono le sue sperimentazioni. Parallelamente all’attività di dj e produttore musicale, è tra i primi ad individuare l’esigenza di mercato di offrire progetti e contenuti di comunicazione basati su un uso strategico della musica e del suono lavorando per Adidas, MTV, Coca Cola, Dolce&Gabbana, Diesel, Nike e tanti altri. Tra i suoi maggiori successi discografici alzi la mano chi non ricorda: “Soul Reply” (2003), “Baby Beat Box” (2005), “Pure Imagination” (2006). Stiamo parlando del producer Stylophonic.

Per Stefano Fontana, questo il vero nome, il 2018 è un anno di importanti cambiamenti.  Un ritorno alle sue prime produzioni e un’inversione di rotta rispetto, esempio, al precedente disco “Jam The House” – che era un prodotto per i club e per i DJ, tutto dancefloor – , che lo portano alla recente pubblicazione di “We Are”: quinto album studio e anche primo lavoro ad uscire per Beat Mansion Records la label da lui fondata, registrato a New York, scritto con il cantante funk originario del Bronx Kena Anae e mixato da Dave Darlington (già ingegnere del suono di Sting, Bob Sinclar, Master at Work, Ruffneck, Basement Jaxx).

E sorge spontanea una domanda: “C’è ancora chi riesce a far ballare con musica di qualità?”. Si, tra questi c’è proprio Stylophonic e non potevamo certo lasciarci scappare l’occasione di farci raccontare di persona questa sua nuova mission, come sia culminare un sogno, come stia cambiando la diffusione della musica dai media ai club, l’importanza della cultura e della famiglia al giorno d’oggi.

Che significato ha per te We Are, sotto ogni punto di vista, personale e professionale.

E’ un album importante per me, come ogni disco ma soprattutto come ultimo disco, per la fine di un percorso e per l’inizio di un altro. In questo progetto ho ritrovato la voglia di produrre come ho fatto nei primi vent’anni di carriera e non come gli ultimi dieci. Mi sono chiesto come potevo tornare a divertirmi davvero tanto dopo un periodo in cui non andavo più in studio ogni giorno e senza la giusta carica. Ho deciso di fregarmene di ogni regola di mercato (cambiano ogni sei mesi ultimamente), di far tesoro del mio percorso e di raggiungere un sogno che avevo fin dagli esordi come dj e producer, ovvero realizzare un disco a New York. Questo stimolo, divenuto poi realtà, mi ha reso felice e penso il risultato finale sia oltretutto uno dei migliori da me raggiunti dalla punto di vista della qualità.

Quindi possiamo affermare che New York e Dave Darlington sono al centro del tuo nuovo progetto?

Si certo. Conosco Dave Darlington fin da quando compravo vinili esempio di M.A.W. e tra i credits, che amo leggere, mi ritrovavo spesso e volentieri il suo nome, prima ancora faceva parte del progetto C+C MUSIC FACTORY, ora ha circa 67 anni ed un’energia pazzesca che ho scoperto lavorandoci insieme. Il mio sogno era entrare nel suo studio e lavorare con chi ha inventato un suono di NY, tutt’ora importante e riconoscibile. I punti fermi, i riferimenti del nostro genere musicale, arrivano da questo contesto (oltre che da Chicago) e per me era importante cercare di fare una cosa che non fosse nostalgica ma moderna. Gli ho mandato alcuni demo, sono piaciuti, e da li abbiamo iniziato a fare un sacco di cose insieme.
E’ stata un’esperienza pazzesca!

E cosa ti ha spinto a scegliere un solo cantante, funk, originario del Bronx, quale Kena Anae per accompagnarti in questo viaggio.

Se guardiamo ai miei album del passato, un cantante non era presente in più di tre canzoni, invece a questo giro volevo un suono ben definito. Ho voluto limitare l’area su cui lavorare mettendomi anche un po’ in difficoltà. Ho deciso anche seguendo quello che era il flow degli avvenimenti onestamente, ovvero in studio da Dave ho conosciuto Kena che lavora nel box a fianco al mio, gli piaceva l’house, il funk, non gli dovevo in sostanza “insegnare” nulla di nuovo, e cosi ci siam detti facciamo tutto con un’unica voce per rendere, volutamente, il tutto più riconoscibile possibile.

Un artista, invece, diametralmente opposto al tuo stile, con cui ti piacerebbe in futuro realizzare un featuring improbabile sulla carta ma che potrebbe risultare un bomba?

Mi piace un sacco Post Malone, fa musica urbana, trap, hip hop, che in un certo senso non vedo poi cosi distante dal mio mondo “house”. Sono generi nati usando gli stessi strumenti, hanno si bpm diversi ma raccontano entrambi la strada.
Lui viene da una scena di artisti che mi fa scoprire ogni giorno mio figlio di cui è grande appassionatissimo. Si direi quindi Post Malone o diametralmente opposto Paul Mc Cartney (ndr. che ha duettato in passato con un altro producer italiano, Bob Rifo) il cui recente album solista a mio parere è bellissimo. Fantasticare non costa nulla!

We Are è anche il primo album ad uscire su Beat Mansion Records. Sentivi il bisogno di avere una label tutta tua?

Si, per un motivo più di tutti. Oramai con la tecnologia è diventato tutto più semplice e aver una propria label ti permette di uscire più rapidamente, tagliando una serie di passaggi nella filiera. Sicuramente ci sono anche prodotti più pop che invece necessitano di una struttura più completa quale una casa discografica nazionale o internazionale. Nel mio caso specifico la distribuzione è stata affidata ad Universal Music.
Esser indipendente oggi è anche fondamentale se si vuole produrre qualcosa senza barriere, senza vincoli creativi. Io sono il discografico di me stesso.

E sei anche fondatore di Sound Identity, la prima nata tra le agenzie di sound branding. Quanto secondo te i mass media, le tv, le radio, influenzano oggi l’orientamento dei consumatori di musica?

Guarda, oggi i media tradizionali influenzano ancora meno di una volta cosa o non ascoltare.
L’influenza magari è generata per lo più da piattaforme tipo spotify o apple music, piuttosto che deezer, che con le loro playlist ti orientano in parte verso certi ascolti ma in realtà se usati navigando liberamente alla scoperta di nuovi artisti sconosciuti, potenzialmente all’infinito, sono assolutamente una figata. I mass media ed eventi correlati, esempio San Remo, pur bene che sia fatto come produzione, condizionano chi la musica in un certo la subisce. Io penso che oggi uno si possa costruire la sua “Sound Identity” in modo assolutamente libero e autonomo.

Oggi si parla anche molto dei nostri giovani all’estero. Tu ti sei formato negli anni ’90 in una città come Londra per poi tornare in Italia. Che idea ti sei fatto attraverso le tue molteplici esperienze.

Parliamo di un periodo storico e culturale completamente diverso. Io nel mio vissuto, ho scelto la via di Londra perché allora, al contrario di oggi, realizzare un disco house e farselo produrre era difficile. Io ho trovato la mia strada oltre manica, dopo esser stato baipassato dalle case discografiche italiane. La mia prima release è stata prodotto dall’allora EMI UK e poi distribuita nel nostro paese dalla consociata Virgin Italia. Risultato? Figuravo come artista straniero nel mio paese.
Il ritorno fisico in patria? Quella è un’altra storia. Sono le scelte di vita, la famiglia, e poi nel nostro paese alla fine si sta bene!

Rimanendo in tema di cambiamenti, come si è evoluta dal tuo punto di vista la figura del dj/producer e la percezione del clubbing in Italia rispetto al resto d’Europa.

Ora grazie alle macchine è tutto più semplice, escono molte produzioni, tante, alcune ben fatte ma bisogna tornare ad esser più creativi. Questo fattore determina la qualità delle proposte.
Per quanto riguarda i club è in atto un cambiamento feroce. Anche nel nostro paese come all’estero stanno iniziando a funzionare sempre di più festival o momenti di aggregazione che virano verso la dimensione live, eccezion fatta per poche decine di locali storici tra cui Tenax o Il Muretto. Moltissimi hanno chiuso o si sono convertiti a mood commerciali del momento pur di non serrare definitivamente ed altro problema c’è un offerta di dj superiore alla richiesta rispetto al passato.
C’è una crisi evidente, un cambiamento in atto e onestamente non mi spaventa. Spesso i cambiamenti sono una benedizione, bisogna uscire dalla cosidetta “comfort zone” senza paura.

Su Instagram hai rivolto una frase molto bella a tuo figlio Enea: “Il mio presente il mio futuro”.
Gli consiglieresti quindi il tuo percorso da dj/producer?

Enea ha solo 11 anni ma ha molto chiaro cosa gli piace. Non mi va di indirizzarlo, a meno che sia lui a chiedermi un consiglio.
Ha iniziato a produrre trap, gli piace molto quel filone musicale e i suoi artisti. Usa Logic a differenza di me che utilizzo Ableton, quindi è del tutto indipendente, ha la sua visione della musica, è molto intraprendente, è curioso e credo diventerà una sua passione. L’importante è che si diverta, poi se un giorno non avrà più questo stimolo, se smetterà, non sarà un problema per me. Studia pianoforte da qualche anno, in casa è lui quello che ne sa di musica. E’ fighissimo, fa delle cose che io alla sua età mi sarei sognato. Ma oltre al divertimento non dimentichiamoci la cultura, il compito di noi genitori è di spronarli in primis a studiare, oggi più che mai.

Tornando a We Are, delle 15 tracce che compongono il disco, quale/i senti più tua/e.

Il primo singolo estratto “Working Club Class Hero”, nonostante sia un pezzo semplice, mi piace come suona e per il suo loop vocale. E’ un pezzo hip hop che viaggia a 126 bpm.
“Imagination Funk Funk Funk” dal punto di vista radiofonico suona altrettanto bene. E’ la perfetta fusione tra ricerca, positività ed orecchiabilità.

E se mi permetti tra i brani strumentali che mi hanno colpito in questo tuo album inserirei “Houz of funk” che riporta d’incanto la memoria ad una certa hit di Fred Falke “Intro”.

Nostalgia canaglia. Hai ragione su questo pezzo ho veramente poco da dire perché il titolo dice tutto. Un brano che fa saltare la gente nel dancefloor!

Per concludere questa nostra lunga chiaccherata e per salutarci, credi il tuo progetto possa assumere in futuro, grazie alle sue sonorità, una dimensione live band, portata in tour?

Si una delle intenzioni è quella di portare il disco in giro live con Kena che canta (tra parentesi è anche un ottimo ballerino, capace di catturare la scena) e io dietro alle macchine. Una proposta che mantiene la sua struttura da clubbing ma che allo stesso tempo riesca tranquillamente a rientrare in un roster di artisti per un festival. Sarà la naturale continuazione ed evoluzione del progetto STYLOPHONIC.