The Land is Inhospitable and so are We, pubblicato all’inizio di Settembre per l’etichetta indipendente Dead Ocean, è il settimo album in studio di Mitski attualmente in tour in Europa (11 ottobre Londra, 14 Berlino, 20 Parigi). Arriva soltanto un anno dopo Laurel Hell, pubblicato a Febbraio 2022, in cui l’artista statunitense di origini nipponiche svoltò verso il synth-pop, per la prima volta realizzando un disco con diverse hit radiofoniche – un punto di rottura verso la sua produzione precedente. Dopo aver contemplato il ritiro e aver rinnovato il contratto con la casa discografica – con la quale ha pubblicato tutti i suoi album ad eccezione dei primi due, autoprodotti durante il college come una sorta di progetto scolastico – Mitski ha pensato che ci fossero ancora delle cose da dire, da suonare, da cantare. E il settimo album in studio, preceduto da tre singoli, da una serie di concerti intimi all’interno dei teatri e da alcune giornate di ascolto all’interno di una serie di negozi di dischi perlopiù americani e inglesi, porta Mitski su un territorio inesplorato, nuovo, meno urgente ma non per questo meno credibile. Ma andiamo con ordine.

ATTO I – Il background

Le cose da sapere su Mitski, per chi scegliesse l’ultimo disco come iniziazione, sono sostanzialmente tre. La prima, non necessariamente legata alla musica – ma funzionale alla comprensione – riguarda il suo rapporto con i media: nel panorama attuale, Mitski rappresenta un unicum rispetto alla protezione integrale della propria sfera privata. Non è presente sui social (il profilo @mitskileaks, attivo solo durante la promozione, è gestito dallo staff), rilascia poche e calibrate interviste, e mai appare in eventi di jet-set quali VMAs e simili. Quindi, la finestra preferenziale (ma anche l’unica) per poterla conoscere è la musica (e qui potremmo dilungarci nel dibattere su come questo debba essere la regola e non certo l’eccezione, ma lo facciamo un’altra volta). La seconda è che se una persona digita “Mitski” su Spotify, e va nella sezione playlist, appaiono cose come “Mitski songs from very angry to very sad”, “Mitski ranked in order of sadness”, “Mitski for when you want to experience the entire spectrum of human emotion”: questo non significa che l’intera discografia di Mitski sia costellata di pezzi tristi, tristissimi, cupi, arrabbiati. Tuttavia, la capacità dell’artista americana di comunicare in maniera diretta le emozioni più profonde e viscerali quasi non ha eguali nel panorama musicale. Vuoi per la voce calda dotata di un’estensione che abbraccia pressocché tutto il pianoforte, che le permette di modulare e di accendere diverse spie emotive, per la chitarra elettrica che suona e che ama e che è quasi sempre l’accompagnamento principale, o per la recentemente acquisita attenzione alla produzione con i synth in crescendo incalzante – i pezzi di Mitski sono spesso dei viaggi su montagne russe emotive che lasciano storditi. La terza è che i suoi album sono più dei concept autosufficienti che un percorso di crescita. Retired from sad, new career in business (2013) proponeva pezzi minimali con pochissimi strumenti e la voce protagonista; in Be the cowboy (2018), gli arrangiamenti sono ultra-contemporanei e sfociano nelle ultime sfumature dell’indie rock; Laurel Hell (2022) è un disco synth-pop estremamente radiofonico, per dirne alcuni. Su The Land is Inhospitable and so are We, ci arriviamo al prossimo atto.

ATTO II – Il disco

Dal punto di vista letterale, la parte più inospitale della terra è il deserto. Laurel Hell si apriva con un pezzo, Valentine, Texas, il cui titolo rimanda a una piccola cittadina texana che Mitski definì come il deserto più deserto che ci sia. Questo è l’unico punto di contatto con il disco precedente, ma è un punto molto forte. The Land is Inhospitable and so are We è un disco desertico nell’intenzione spoglia, immediata, ma non per questo semplice. È un album cupo, a tratti scuro, ma senza mai essere dark. È un album, per certi versi, texano, e proprio nel suo essere tale rimanda a certe produzioni di Koe Wetzel, con la chitarra folk, quasi country che accompagna i pezzi. Per la prima volta, Mitski appare vicina a Cat Power, in un’intimità leggera e lievemente svelata. Tutto questo è indubbiamente vero nell’intenzione, ma c’è una grande novità rispetto alla produzione precedente dell’artista, che rende il disco sorprendente. L’arrangiamento è realizzato da un’orchestra, diretta da Drew Erickson (che la diresse anche And in the Darkness, Hearts Aglow di Weyes Blood e in Chloë and the Next 20th Century di Father John Misty, dischi all’interno dei quali calzerebbero a pennello certi pezzi di quest’album). E quindi, archi, trombe, partiture orchestrali completiesuggellano i pezzi, donando un’aura quasi sacra al goth-country e al folk che sono la base di partenza del disco. La stessa artista ha dichiarato in un reel che il sound del nuovo lavoro parte da Buffalo Replaced, la seconda traccia, un soft rock desertico con basso e batteria. Ma questo è, appunto, solo il punto di partenza, da cui l’orchestra completa e anima l’opera. Mitski ha raccontato che il tema principale del disco è l’amore (e infatti, sono pochi i pezzi che non hanno questo come tema centrale), che spesso, come c’era da immaginarsi, diventa disamore, promessa disattesa, speranza flebile, esperienza totalizzante che sovrasta l’essere umano. The Land is Inhospitable and so are We è sicuramente meno urgente dei dischi precedenti; nonostante questo, consacra Mitski come l’antonomasia dell’indie-rock, e della musica come auto-diagnosi e auto-analisi, regina dello storytelling e delle metafore, e capace perfino di aggiungere arrangiamenti quasi mai percorsi prima.

ATTO III – Canzone per canzone

Apre il disco il primo singolo estratto, Bug like an angel: l’alcolismo irrompe prepotente, spezzando un inizio chitarra e voce quasi folk, alla Joan Baez, con un tono psichedelico. Sometimes a drink feels like family, canta un coro gospel, che più volte si ripete nel pezzo, facendo ricordare The Grants di Lana Del Rey. L’alcolismo si mischia poi alla religione (When I’m bent over wishing it was over / making all variety of vows / I remember the wrath of the devil / was also given him by God) nell’epilogo del brano. Segue Buffalo replaced, un plain rock texano, con i piatti della batteria suonati leggeri e la voce soft: è la speranza, la protagonista del brano che ha conferito il sound al disco. L’orchestra alla Father John Misty si presenta in Heaven, magistrale brano di disamore, in cui l’intenzione country viene coperta dagli archi che veleggiano spiegati ad accompagnare la voce disperata che sip on the rest of the coffee you left. Il pezzo più “mitskiano” è senza dubbio I don’t like my mind, ballata sull’autodistruzione e sull’odio verso se stessi. Il racconto in prima persona è di una donna dipendente dal lavoro, incapace di frenarsi (on an unconvenient Christmas I eat a cake / a whole cake, all for me / and then I get sick and throw up): la capacità di Mitski di dare parola alle emozioni più profonde dell’animo umano è confermata in questo pomposo brano goth-country, che termina con un canto quasi jazz. The Deal, brano centrale, sembra uscito da un album di Weyes Blood, con la seconda strofa meno melodica della prima e con il cantato sorretto dal riverbero, e con un finale spettrale alla Kate Bush dove l’anima di Mitski è antropomorfizzata nelle sembianze di un uccellino incastrato su un lampione. When Memories Snow è un intermezzo jazz americano anni 50, e If I break, could I go on break? / be back in my room writing speeches in my head / listening to the thousand hands that clap for me strizza l’occhio a Class of 2013. L’eleganza e i toni classici di My love mine all mine (ultimo singolo estratto con videoclip), ballata su un amore inteso come di proprietà, anticipano The frost, tenue brano di disamore non troppo funzionale alla riuscita dell’album. In Star, Mitski sfiora addirittura il sadcore, in un crescendo che culmina nell’inciso di un amore inteso come salvezza di sé e dell’altro (you know I’d always been alone / Till you taught me how to live for somebody). L’autodistruzione torna in I’m your man, dove vocalizzi lirici, cani che abbaiano e uccellini che cinguettano animano l’outro, culminando in I love me after you, degno epilogo di un album classico, texano, rock, triste, spigoloso, vulnerabile – ma che conferma Mitski come una delle penne, e delle voci, più rilevanti del panorama indie rock.