Venerdì 24 settembre 2021 è uscito Words of Dogtown (peermusic ITALY), il disco d’esordio di Tanca. Stefano Tancredi, musicista pugliese trapiantato a Milano con l’amore per lo skate e un passato da frontman di una band hardcore, ci ha regalato un album che è l’affermazione identitaria di un artista multiforme, che mescola tra loro i genere più diversi, dal punk al rap, dal metal all’urban, con infiltrazioni elettroniche e tanto altro ancora. Il risultato? Dieci tracce esplosive, al tritolo, che ripercorrono senza veli o mezzi termini le parti più viscerali, dalle più belle alle più sofferte, della vita e dell’adolescenza di questo giovane artista.

Words of Dogtown, prodotto dallo stesso Tanca con incursioni di Giumo (nei brani Brbcue, Moka, My Darling, Sbadigli), è un viaggio fatto di partenze, ritorni, citazioni, ricordi, rabbia, e poi l’incredibile legame con il collettivo artistico Klen Sheet, che troviamo sia nella copertina del disco che nei feat, e il paragone con gli skater Z-Boys del film Lords of Dogtown, di Stacy Peralta, ai quali è dedicato il titolo dell’album e il primo brano, Dogtown. Il tutto sostenuto dal rap graffiante di Tanca e da sonorità differenti e amalgamate, che creano un effetto da pugno allo stomaco e grido a pieni polmoni, che lascia senza fiato.

Con Words of Dogtown, Tanca ci incoraggia a fare le nostre scelte, qualunque esse siano, purché siano giuste per noi, proprio come ha fatto lui, perché solo così, solo con questo continuo aprirsi, sperimentare, cadere e rialzarsi, squarciarsi e ricucirsi, si può davvero crescere. Con Futura 1993, abbiamo parlato di tutto questo nell’intervista qui sotto.

Ciao Stefano! Prima di parlare del tuo nuovo album, raccontaci chi è Tanca.

Tanca è un ragazzo di 24 anni con la passione per lo skate, la musica e tutti i generi, la birra e i concerti (principalmente quelli in cui si poga!). Ho iniziato a suonare da piccolissimo, a dieci anni ho ricevuto la mia prima chitarra e il mio primo skateboard come regalo di compleanno e da lì non ho mai smesso di amare la cultura che ho iniziato a seguire.

Ora parliamo di Words of Dogtown, il tuo primo lavoro solista. Come è nato, che cosa racconta e cosa speri comunichi a chi lo ascolta?

È nato, o meglio, è iniziato a venir fuori nel periodo di quarantena di inizio 2020. Stavo buttando giù delle tracce senza un motivo specifico, ma sentivo di star raccontando le parti più viscerali della mia vita e adolescenza. Verso la fine del processo di produzione, mi sono reso conto di aver fatto un disco e di aver detto esattamente quello che volevo dire.
Quello che cerco di comunicare è una sorta di sicurezza nel fare qualsiasi tipo di scelta, giusta o sbagliata che sia. Nel momento in cui qualcosa è giusto per te, fallo. Se è sbagliato lo impari col tempo, ma bisogna avere pazienza.

Nel tuo album, i riferimenti a Lords of Dogtown (2005) sono continui. Cosa significano questo film e la storia degli Z-Boys per te?

Innanzitutto è uno dei miei film preferiti. Poi è la mia associazione al Klen Sheet: dei ragazzi che per necessità e con molta incoscienza hanno seguito loro stessi e le proprie passioni, creando qualcosa che ha cambiato il mondo dello skateboard per sempre. Con il Klen Sheet nessuno pretende di cambiare niente o di diventare leggenda, ci basta pensare che da vecchi saremo orgogliosi di quello che abbiamo fatto, restando uniti.

In un tuo post di Instagram scrivevi che fare un disco ‘ti squarcia in due, ti apre e non ti rimette a posto, ma è bellissimo per questo’. Mi ha colpito molto; mi spiegheresti più nel dettaglio che cosa intendi?

Nel mondo dell’arte, quando questa è pura e vera, ognuno mette parti di se stesso e farlo non è solo bellissimo e appagante, ma distruttivo e doloroso. Io ci ho messo le parti più belle e quelle più sofferte della mia vita. Non tutti sanno o capiranno tutto quello che c’è nel disco; io ovviamente lo so e anche portare tante cose sul palco, sapendo il valore che hanno, mi spezza, mi divide, mi tranquillizza e mi ricuce, così in loop. Per questo penso sia bellissimo fare dischi o fare cose del genere, perché ti dai da solo un aiuto e allo stesso tempo sei tu stesso a buttarti giù per rialzarti, come dicevo prima, in loop, per crescere.

Nel disco si alternano riferimenti al passato, alla tua adolescenza vissuta ad Altamura, fino alla partenza dalla Puglia, l’arrivo a Milano e il collettivo Klen Sheet. Quanto è centrale la tua storia, passata e presente, nelle tue canzoni?

Totalmente centrale. Ovviamente non parlerò sempre della mia vita e nelle canzoni che ho fatto non parlo sempre della mia vita, ma il mio disco doveva essere un libro aperto su quello che ho vissuto e che sto vivendo, ma non in maniera egocentrica: è come voler conoscere qualcuno la cui personalità ci attrae e non vediamo l’ora di aprirci e condividere tutto. Mi sono sentito attratto da questo potere che ha la musica e mi sono aperto totalmente con un messaggio. Però aprirsi, che sia doloroso o appagante, bisogna farlo: puoi conoscere meglio te stesso e gli altri.

Nel disco parli molto di partenze, ma c’è spazio anche per i ritorni a casa, anche se non sempre facili.

È un periodo difficile per quanto riguarda i ritorni. Stanno cambiando tante cose e inevitabilmente i ritorni accompagneranno questo momento. Posso dire che tornare e riandarmene da casa mia è esattamente come quello che dicevo prima: mi squarcia e mi ricuce ogni volta.

Un’altra costante in questo disco è il Klen Sheet: è con te nella copertina, nei feat (Ngawa, Giumo, Maggio), è nei tuoi testi…Che cosa significa per te fare parte di questo collettivo, sia a livello artistico che personale?

Ho sempre lavorato meglio in gruppo e farlo con persone con le quali condivido gusti musicali, esperienze e anche la casa in cui vivo è stupendo. Far parte del Klen Sheet mi dà più forza e sicurezza di quanta ne potrei avere facendo tutto da solo. Non che non ne sia capace, ma scelgo di condividere anche perché i risultati condivisi sono molto più appaganti.

Inizialmente eri parte della band post hardcore Backside. Ora sei passato al rap, pur mantenendo un’anima punk e amalgamando tra loro sonorità diverse. Come è avvenuta questa evoluzione?

Ho sempre ascoltato tutto da quando ho memoria. Sono cresciuto con i dischi dei Led Zeppelin, Eminem, 50 Cent, Black Sabbath, Pantera e tanti altri. È stata un’evoluzione che ha sempre riguardato la ricerca che è partita da quei dischi. Suonare gli strumenti o stare in una band e mischiare il rap e l’urban è quello che ho sempre voluto fare e che continuerò a fare sempre, mi soddisfa tantissimo. Poi non mi sento un rapper, perché non mi interessa definirmi in quel ruolo. Mi interessa portare avanti un tipo di ricerca musicale e farlo senza pretese. Posso dire di riuscirci e basta, perché è la cosa che mi viene più naturale.

I tuoi pezzi sono ricchi di riferimenti espliciti alle tue influenze: ai Misfits in My Darling, ai Rage Against The Machine in Un secondo, al Wu-Tang Clan in Moka, il cui titolo è un omaggio anche ai Linea 77. Anche il nome d’arte Tanca, oltre a riprendere il tuo cognome Tancredi, si riferisce a un brano di Iosonouncane. Parlaci delle tue influenze musicali, se e quanto è importante per te celebrarle in questo modo, citandole nei tuoi lavori.

Per me è importante mischiare generi tanto quanto citare le mie influenze. Lo faccio perché voglio svelarmi, non voglio tenere tutto per me e farlo in maniera velata, voglio dirti: “questo viene da qui’’, per creare un filo conduttore, una storia o per far capire il percorso, com’è nato, come procede e come andrà avanti.

Quali sono i tuoi progetti per l’immediato futuro?

Dedicarmi ai progetti che ho in ballo per altri artisti, suonare il mio disco live, suonare con il Klen Sheet live, organizzare eventi (cosa che sto facendo). Chiudere un progetto collettivo, ritornare in sala prove insieme a musicisti anche senza uno scopo preciso ma semplicemente ritornare a suonare e a scrivere le canzoni come si faceva una volta (scherzo!).
di Maria Stocchi

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