Andrea Laszlo De Simone è il peggior venditore di se stesso. In una mezz’ora di intervista, infatti, è riuscito a confessare di essere «un po’ sociopatico», ha dato ragione a Manuel Agnelli quando ha detto che tra i musicisti contemporanei non si salva nessuno, «me compreso», e ha pure aggiunto che «questo album Uomo Donna, (9 giugno per 42 Records) non avrei nemmeno voluto farlo uscire». Ma anche il meno dotato dei promoter, com’è senza dubbio Laszlo, nulla può contro un disco gigantesco, che ti inchioda lì, facendoti accantonare gli ascolti di cui ti stavi circondando in quel momento. Un disco che va contro ogni buon senso, con 12 tracce di minimo 4 minuti l’una ma che arrivano anche oltre gli 11, ma che vince la sfida e splende.

Come mai questo titolo Uomo Donna? Nessun riferimento a teorie del gender immagino …

(Ride) No, decisamente. All’inizio doveva chiamarsi come un’altra canzone, ovvero Sparite tutti, che racconta la potenza del sentimento amoroso che ogni tanto riesce a fare terra bruciata intorno a sé. Poi ho pensato che Uomo Donna non solo era più sintetico, ma rendeva meglio il filo conduttore del disco, che è una riflessione un po’ esistenziale sull’umanità e sulle sue emozioni.

Però c’è anche un sacco di amore, e anche parecchio sofferto: vita vissuta o narrazione?

Partendo dal presupposto che fosse stato per me non avrei mai fatto sentire niente a nessuno (ride), posso dire che tutto volevo fare tranne un disco d’amore, eppure è uscito così. Quasi mio malgrado. Sicuramente non è autobiografico, le canzoni non raccontano di me, ma certo è che mi lascio ispirare dal dolore, anche se non proviene direttamente dal mio vissuto. Sì, mi interessano di più i movimenti emotivi faticosi, anche se poi mentre li racconto suonando sono felice come non mai.

Sei di Torino: quanto ha influenzato il tuo fare musica quel contesto?

Torino è una città ricca di fermento, io, poi, frequento e lavoro molto al Superbudda, ma non mi sento parte di una scena, sono più un cane sciolto, o meglio mi sento vagamente sociopatico!

Di recente Torino è stata al centro della cronaca per la brutta storia di Piazza San Carlo: tu che idea ti sei fatto?

Ero a Roma quando è successo quell’orrore e ho trovato che fosse una cosa prima di tutto molto imbarazzante, per la città, ma in generale per tutti. Poi ho anche pensato che i mezzi di comunicazione in questi ultimi anni hanno collaborato a creare un clima di costante terrore e allarme legato alla possibilità di atti terroristici, quando rimane mille volte più pericolo, per dire, schiantarsi con l’auto. Anche questo è imbarazzante: come si cerchi di manipolare la nostra mente e le nostre emozioni.

Quest’estate suonerai in giro per l’Italia (info su www.dnaconcerti.com): che tipo di concerto sarà il tuo?

Lo sto preparando con i miei musicisti a spizzichi e bocconi, nei ritagli di tempo dal lavoro e da mio figlio che ha 4 anni e mezzo e di tempo ne assorbe tanto. Ripeto: così come non avrei fatto uscire il disco, anche per quanto riguarda l’esperienza del tour sono titubante. Diciamo che è qualcosa tutto da scoprire, ma credo che le possibilità siano solo due: o mi troverò sul palco a chiedermi “ma io che ci faccio qua”, oppure sarà bellissimo.

E a tuo figlio stai già insegnando a fare o ascoltare la musica?

Naturalmente a mio figlio non consiglierei mai questo tipo di carriera (ride) ma com’è ovvio si è già approcciato a tutti i vari strumenti che ci sono in casa. Io, però entro in gioco solo se mi chiede qualcosa di specifico, altrimenti lo lascio fare liberamente, e se la cava parecchio bene visto che sa già registrarsi da solo. Una volta è successo che tornando a casa con gli amici di scuola abbia attaccato a cantare Rovazzi, e devo dire che dentro di me per un attimo è passato un brivido di terrore, poi però gli ho detto “che bello sentirti cantare, se ti piace la musica posso farti ascoltare anche altro”. Ecco, in quel caso penso di essere stato davvero bravo.

Tornando a Rovazzi, comunque, trovo che molta responsabilità la abbia una categoria genitoriale che stigmatizza le canne e non vede il pericolo insito nell’abbassamento del linguaggio, nel portare avanti valori così miseri espressi con gioia e naturalezza, perché poi quelli sono dolori veri, sono strutture mentali che rimangono. E così senti molte canzoni di adesso e capisci che non c’è differenza tra una canzone e uno spot allora capisci che molti linguaggi stanno morendo. Non si può sentire un bambino piccolo che canta l’ignoranza sponsorizzata dalla società stessa. Rovazzi andrebbe bene se contestualizzato nel ghetto e fosse movimento popolare, inteso come lotta alle istituzioni, mentre le istituzioni mediatiche sono i buzzurri di Maria De Filippi da un parte e dall’altra quelli che cantano la pochezza, e allora vuol dire che 25 anni fa Berlusconi ha vinto per sempre. Chiaro che la gente piange se Totti smette di giocare: gli manca la fedeltà, gli manca qualcosa in cui credere, e tu dimmi se, e lo dico da tifosissimo di Totti, un giocatore può portarsi addosso una simile responsabilità.

 

Credits: ph @ Ivana Noto