Matteo e Francesco, rispettivamente compositore e scrittore, si conoscono tramite YouTube e pochi giorni
dopo il loro primo contatto decidono di incontrarsi per parlare di musica. Tra una chiacchera e l’altra i due
si trovano immediatamente all’unisono, a tal punto da decidere di formare un duo, LE ORE.
I due iniziano suonando cover di artisti nazionali ed internazionali su diversi palchi d’Italia, molto spesso
come opening act di altri musicisti, fino poi ad arrivare ad organizzare concerti indipendenti per i propri fan.
Per LE ORE la musica, intesa come arte, è condivisione, non importa dove, quando e con chi, tutti ne hanno
bisogno ed è giusto che tutti ne usufruiscano. Seguendo questo filo logico, mettono la propria musica al
servizio delle persone, suonando prima durante la distribuzione dei pasti alla stazione Termini, ed
organizzando poi un tour intimo stile Sofar Sounds che li ha portati a suonare live dentro 12 case private in
ben 8 regioni d’Italia.
Il punto di svolta arriva quando LE ORE sentono la necessità di esprimere loro stessi, testualmente e
musicalmente; si prendono così una pausa per concentrarsi sulla scrittura e produzione dei loro pezzi
originali. Matteo e Francesco decidono di fare tutto da soli, senza compromessi dettati da etichette o
persone esterne, e nel 2018 esce il loro primo singolo La Tenerezza, una canzone diretta e senza troppi
fronzoli che arriva dritta nella testa dell’ascoltatore, un incrocio tra synth e indie pop che esprime la voglia
sperimentale del duo romano. Nei due anni a seguire LE ORE ottengono sempre più riconoscimenti, prima
partecipando a Sanremo Giovani e poi venendo inseriti in varie playlist indie delle maggiori piattaforme di
streaming musicale.

E’ uscito il loro primo EP Che Fine Abbiamo Fatto, un prodotto estremamente curato nei minimi
dettagli in cui condividono con il pubblico la loro introspezione, dando sfogo a nostalgie, malumori, amori e
cazzate fatte durante il percorso. Una produzione analogica impeccabile che ha quel gusto retrò che fa
sembrare tutto più autentico. Noi di Futura 1993 abbiamo avuto l’opportunità di fargli qualche domanda e parlare di questo nuovo disco.

Ciao ragazzi, è un piacere intervistarvi. Come state? Come vi sentite rispetto all’uscita del vostro primo
EP?
Bene e strani. Bene perché non vedevamo l’ora di condividere il nostro punto di vista con chi ci ascolta e ci
aspettava da un anno, strani perché forse siamo legati a una visione un po’ più romantica della release
discografica. Siamo cresciuti in mezzo ai CD comprati con le paghette e ai vinili dei nostri genitori, abbiamo
cominciato a fare musica prima sul palco che in studio, abbiamo scritto, prodotto e registrato questi brani
“alla vecchia maniera”, e poi l’uscita in sé consiste in un post su Instagram con scritto “il nostro primo EP
fuori ora”.
Vabbè, malinconia a parte stiamo bene, grazie, ed è un piacere anche per noi essere intervistati.

Una caratteristica forte che percorre Che Fine Abbiamo Fatto è la possibilità, per l’ascoltatore, di vedere
chiaramente ciò che si ascolta. Quanto è importante per voi raccontare le scene quotidiane della vostra
vita?
Per noi, perlomeno in questo momento, è l’unico modo per dare un senso a quello che facciamo. Non è
ancora chiaro il quadro dei live, non ci riapproprieremo della nostra vita ancora per un po’ e non abbiamo
contratti milionari con nessun brand da citare nelle canzoni, quindi l’unica logica è l’onestà. Il pubblico che
ha imparato a conoscerci capirebbe subito se in un brano parlassimo di una vita non nostra e, prima ancora
di questo, abbiamo noi in prima persona la necessità di poterci guardare allo specchio la mattina e di
andare a dormire con la coscienza pulita la sera… o la mattina dopo, ma vabbè questo è un altro discorso.

Da appassionato di sound autentici e soprattutto analogici, come mai quest’idea di registrare su un
banco mixer degli anni ’80?
Matteo ha prodotto tutti i brani e suonato praticamente tutti gli strumenti nei posti più insospettabili, dal
bagno di una camera d’albergo a quello di un treno regionale, da un parcheggio a ore a Napoli all’armadio
in camera sua, i testi li ho scritti (Francesco) con carta e penna come sempre, ma stavolta senza pensare
prima alla melodia, scrivendo racconti e confessioni che mi piacessero anche senza musica, semplicemente
leggendoli. Lo stesso ragionamento lo stava facendo contemporaneamente Matteo, che voleva creare
mondi sonori che avessero un loro sviluppo, un loro racconto, anche senza una voce che ci cantasse sopra.
Il risultato è stato quindi il più sincero finora e, volendo che questa autenticità trapelasse anche ascoltando
i brani registrati, abbiamo scelto di mantenere praticamente tutte le registrazioni originali senza rifarle in
bella, e di lavorare quei suoni, quelli aggiuntivi e le voci finali in un ambiente che ci ricordasse i dischi di una
volta, quelli che probabilmente erano in sottofondo la notte che siamo stati concepiti. Cercavamo calore,
legno e logiche soltanto emotive e artistiche.

Canzone del Cazzo è un pezzo molto orecchiabile che però dimostra un’identità sfacciata e sfrontata, mi
raccontate di più su come è nata questa traccia?
L’unica canzone che abbiamo scritto nella stessa casa, Matteo in salone in cuffia, io in camera con la paura
di aver preso il Covid; raffreddore e totale assenza di gusto mi tenevano lontano anche dai miei familiari in
attesa di un tampone. In quei giorni costretto a letto il mio umore era tra i peggiori di sempre, la morte di
Gigi Proietti ha gettato benzina sul fuoco, e, non potendo avere nient’altro, mi sarebbe bastata una
canzone del cazzo, una qualsiasi che mi salvasse, che mi capisse, che mi ascoltasse, una su cui piangere e su
cui ballare, anche contemporaneamente, una che magari non capisse cosa dicessi, ma che stesse lì senza
giudicarmi, senza rispondermi.

Dopo quattro giorni passati su quel letto che ormai sembrava una tomba, il tampone ha dato esito
negativo, ho così raggiunto Matteo e gli ho fatto sentire al piano uno dei testi più depressi che abbia mai
scritto, lui mi fa: “Bello! Cantalo qui sopra”.
Parte la base e capisco che solo così sarebbe stata la canzone del cazzo che volevo, un’unione tra l’anima
leggera e ritmata della strumentale e la pesantezza di un testo claustrofobico. Se fosse un gelato sarebbe
un “Maxibon”, morbido da una parte e croccante dall’altra, poi è uscita in estate.

Rispetto ai pezzi passati, c’è meno ironia ma sembrate più profondi, musicalmente e testualmente, qual è
stato il cambiamento che vi ha portato a produrre Che Fine Abbiamo Fatto?
Secondo noi serve profondità e intelligenza per fare ironia su un malessere o su una storia finita male, ma
ciò non significa che quello sia un racconto senza filtri, anzi. La chiave ironica è una scelta narrativa, se vuoi
più distaccata, per starci meno male, per far vedere di avercela fatta, di aver superato un’impasse, un
ostacolo, e la differenza è che stavolta non abbiamo voluto far sembrare niente. Abbiamo scritto (e
composto) come se le cose le stessimo dicendo (e suonando) allo specchio, in un momento storico (e
personale) in cui tutto era fermo, ed in cui chi si muoveva sembrava non aver capito dove stesse andando.
Ci sentivamo scollati dalla realtà e dall’umore medio della popolazione (e dei nostri colleghi), abbiamo
perciò scelto di scomparire dai social, ci siamo detti “Ogni volta che ci andrà di dire qualcosa in un post,
piuttosto scriveremo una canzone”. È passato un anno, abbiamo letto un sacco di chiacchiere, tutto e il
contrario di tutto, ci siamo ritrovati con zero post su Instagram ma con un sacco di canzoni. E per noi va
bene così.

In Caviglie si sente Francesco sospirare prima di iniziare a cantare, cosa significa per voi questa canzone e
perché l’avete scelta come traccia finale dell’EP?
Siamo molto contenti di questa domanda, grazie mille! Sì, il sospiro è inconsapevolmente il primo verso del
brano. Ho scritto (Francesco) testo e melodia la notte esatta in cui, affacciandomi dalla finestra a Roma, ho
sentito che l’aria stava cambiando, che l’estate stava scappando nonostante fosse appena arrivata. Il tempo
che passa mi distrugge ogni volta che ci penso, ed in più Matteo ha creato probabilmente la sua più bella
strumentale finora, così ho scelto di cantarci sopra Caviglie, modificando anche la struttura del pezzo pur di
farlo calzare su quella musica, che per me era (ed è) perfetta per rappresentare l’umore di quella notte.
Parte da un sospiro ed arriva ad una batteria con tanto di timpani, cori e violini, il tripudio finale era per noi
il coronamento di questa prima parte di viaggio, come a chiudere un piccolo cerchio aperto da Ennò però
all’inizio dell’EP.

La musica ispira sempre altra musica, quali sono gli artisti e i generi che vi hanno maggiormente
influenzato?
Chiunque faccia musica risponderà sempre di essere ispirato da migliaia di artisti e centinaia di generi
diversi, senza mai limitarsi ad una guida soltanto, perciò credo che la nostra risposta non sarà più originale
della media.
Non sappiamo chi, ma sicuramente tanti talenti e tante epoche ci hanno ispirato e continueranno a farlo,
diciamo che chiunque lavori senza guardare l’orologio è un’ispirazione per noi, e non parliamo soltanto di
autori e musicisti, ma di ristoratori, impiegati di banca o istruttori di nuoto.

Ho letto che vi siete conosciuti tramite YouTube per poi incontrarvi il giorno successivo, qual è stata la
scintilla che ha dato vita al vostro progetto musicale?
Matteo cercava un cantante per fare una band indie rock, influenze e riferimenti britannici, probabilmente
con pure le canzoni scritte in inglese. Sicuramente aveva un immaginario ben chiaro. Poi ha scoperto me su
YouTube, facevo cover acustiche di brani pop ed ha visto (e sentito) qualcosa che gli è subito piaciuto. Da
quando mi ha scritto a quando siamo diventati una band è passato veramente poco: ancora prima di
entrare in sala prove o iniziare a parlare di canzoni, sentivo quel tipo di legame che avevo sempre
immaginato ci fosse tra chi fa la scelta di mettere in piedi un gruppo, tra chi punta su una squadra e non su
un singolo per cominciare un’avventura, un’alchimia inspiegabile che fa sembrare tutti gli appuntamenti
quotidiani necessari anche se da fuori sembrano inspiegabili.

In un periodo così volubile e senza certezze, quali sono i vostri piani per il futuro?
Arrivarci. Scherzi a parte, non abbiamo la smania del futuro, anzi, abbiamo già nostalgia di quello che adesso
consideriamo futuro ma che tra un’ora sarà andato per sempre, e questa non è una condizione di partenza
favorevole in un momento storico in cui tutto va così veloce, in cui un contenuto interessa, viene divorato e
passa di moda nel giro di 15 secondi. Musicalmente parlando il nostro piano è non essere intrappolati in
quei quindici secondi, per questo non facciamo TikTok o Reels, ma scriviamo cose che possano durare
almeno tre minuti. Grazie per l’attenzione e per le domande attente, davvero.


Intervista di Daniele Maretto

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