Dutch Nazari è uno che ha «iniziato a fare rap quando ancora era da sfigati, al punto che le tipe ti giravano al largo, se non è vera passione questa!». Duccio, in arte Dutch, classe 1989, nato a Camposampiero in provincia di Padova, è anche uno che, salvo straordinarie doti da abilissimo manipolatore, non t’immagini a dire cosa che non pensa, per questo intervistarlo significa trovare una felice corrispondenza tra l’autore delle dense e intense tracce di Amore Povero e il ragazzo che chiacchiera della “nostalgia positiva”, dell’amore che non è solo roba da adolescenti, e della bellezza di sapersi smarcare dagli stereotipi per dare, invece, vita a qualcosa di nuovo. Che nel suo caso va sotto il nome di cantautorap.

Amore Povero sta andando alla grande, le date del tour si moltiplicano, i giornali ti intervistano: è più la gioia o la strizza a dominare questo momento?

La contentezza. Tutto sta andando benissimo, e per me, che faccio musica da anni, questa è la prima volta che ricevo così tanto riscontro. Dal punto di vista dell’hype la cosa che mi gasa di più è che ho la possibilità di girare l’Italia suonando, che era quello che sognavo di fare.

Hype, il tuo, raggiunto senza dover nascondere la tua identità, come va un po’ di moda adesso …

Sì, giusto ieri ho conosciuto e fatto amicizia con Gazzelle, per un concerto nel parco del Venda. So che questa scelta del rimanere più o meno anonimo gli è stata anche un po’ rinfacciata, ma io credo che se dal punto di vista estetico c’è una bella idea dietro, va benissimo. Poi c’è Liberato, che ha fatto solo una hit (tra l’altro geniale l’idea di unire il neo melodico alla trap) e ha creato il delirio! Da quello che ho capito, c’è proprio il dubbio su chi sia Liberato, se quello che canta o quello che produce, e sì, questo mi rende super curioso. Ho la fortuna di suonare al Mi Ami la stessa sera che c’è lui, così finalmente vedrò chi è e cosa fa.

Venendo alle tue, di cose, in Proemio canti dell’amore come qualcosa di funzionale: funzionale a chi lo canta e non lo prova, ma anche a chi lo prova e si censura. Tu da che parte stai?

Qualcuno ha definito il mio disco “adolescenziale” e questa cosa mi ha fatto riflettere, perché sembra che se parli d’amore non puoi che essere un teen ager, quando in realtà credo sia innegabile che sia un’esperienza centrale nella vita intera delle persone. Non è un’esperienza, però, che viene davvero vissuta così come la raccontano questi autori di mestiere che per il mainstream scrivono parole che pensano funzioneranno, ma senza provare quello che raccontano. Io, dell’amore, ma così come di tutto ciò che scrivo, ne parlo in termini sinceri.

Questo rimando all’adolescenza mi porta a chiederti della nostalgia, sentimento presente in Amore Povero. Per te che sapore ha, la nostalgia?

Questa presenza della nostalgia l’ho notata a posteriori, ma è vera. Pensa che il primo EP mio e di Sick et Simpliciter (suo amico e producer da sempre ndr) uscito nel 2014 si chiamava Diecimilalire, e per me la lira è simbolo per eccellenza della nostalgia, visto che ancora adesso ricordo i prezzi dei dolci e delle caramelle in lire. Credo sia un sentimento che vivo, ma senza troppa intenzione. Se devo definirla, la immagino come una specie di filtro, che farà sì che in futuro io ripensi a questo periodo con i colori, le sfumature date da quel filtro lì. La nostalgia, però, non deve mai essere rimpianto. Io la vivo con positività.

Nel video di Amore Povero c’è un frigo al centro: è un po’, oggi, lo specchio dell’anima?

Mah, più che altro la canzone parla proprio di un amore povero e il frigo vuoto lo simboleggia perfettamente.

Ma nel tuo, di frigo, che cosa c’è (occhio, che ormai il cibo è una bandiera politica)?

(Ride) C’è… Mmm… No, non ce l’ho un frigo, non sono mai a casa, quindi niente, nel mio frigo non c’è niente (Ride).

Nelle stazioni: i telefoni hanno preso il posto dei libri, le big bubble quello delle fragole, vedi una mortificazione dei sensi? E secondo te è possibile un processo inverso?

Questa cosa la soffro e la accuso, perché, soprattutto da quando ho un computer portatile, alla sera, invece di leggere un libro come facevo prima, rischio di farmi tentare dalla puntata della serie tv, dal Facebook scrolling, dal dare un’occhiata alla mail… Io ci sto provando a dire no, chiudi il computer, piglia il libro e leggi, che poi è uno sforzo per modo di dire perché leggere è sempre bellissimo. Penso, per rispondere, che se lo si desidera si deve ogni tanto provare ad arginare l’abuso di tecnologie.

Beh, sembri uno capace di governare i propri vizi, hai anche raccontato di essere riuscito a smettere di fumare …

Sì, invidio molto chi riesce a sfumacchiare una volta ogni tanto, sarebbe bellissimo, ma io o ne fumavo 30 al giorno o zero. Ho optato per lo zero e sta andando bene: smentisco il luogo comune che vuole la scrittura legata a filo doppio al fumo, si va da dio anche senza.

Come si può fare senza, pur facendo rap, di cadere negli stereotipi legati a questo genere, ovvero soldi, donne, successo eccetera. Perché non ti appartengono?

Io faccio un distinguo: ci sono rapper che nei loro pezzi raccontano spaccati di vita vissuta, altri che si buttano a capofitto in un immaginario di riferimento preconfezionato. Per esempio Achille Lauro, che fa un rap con influenze trap in cui racconta certe sue esperienze reali e toccanti, tanto che alcuni pezzi sono veri trattati di sociologia, beh fa qualcosa di bellissimo. Chi, dirò una banalità, racconta cose che non ha vissuto potrebbe pure farne a meno.

In questo Dargen D’Amico è stato un punto di riferimento per te?

Dargen mi ha mostrato la via. A un certo punto del mio percorso di ascoltatore, una decina di anni fa, quando già ero appassionato di rap, mi scontravo con i miei amici che smontavano i miei ascolti dicendo: vabbè, ma questo alla fine ha solo detto “tua mamma è una puttana, io spacco, io sono il re”. E io ribattevo che era vero, ma che lo aveva detto con una metafora super figa, però in qualche modo gli davo ragione. Quando è uscito nel 2008 Di vizi di forma virtù, secondo disco di Dargen, mi ha aperto un mondo, perché il rap era stilisticamente fighissimo, con giochi e metriche straordinarie, e con un contenuto di narrazione originale e cento per cento suo. Mi ha fatto capire che si può fare anche questo, non per forza solo auto esaltarsi o insultare qualcuno, ma che si può proprio raccontare qualcosa con metriche e flow da paura.

Parlando di riferimenti, non mi sembri uno che si fossilizza su un solo genere: che cosa ascolti e che cosa hai ascoltato finora?

Io sono cresciuto in una famiglia in cui la musica è molto importante, perché mia mamma è musicologa e mio papà un fervido ascoltatore, quindi i ricordi delle vacanze sono legati in modo meraviglioso a una valigetta zeppa di musicassette. C’erano Dalla, Guccini, De Andrè e tantissima canzone d’autore italiana. Poi, nel periodo dell’adolescenza, ho scoperto il rap e mi sono appassionato tantissimo a quello italiano e devo dire che per un bel po’ ho ascoltato praticamente solo quello, partendo da Mi Fist dei Club Dogo e Mister Simpatia di Fabri Fibra. Nell’ultimo periodo ho mescolato le due cose, rap e cantautorato, che sono le mie due grandi influenze e da lì è nata la definizione di cantutorap. Che per me è stato impreziosito dall’incontro, 5 anni fa, con Alessandro Burbank, che oggi è uno dei miei più cari amici e che è un poeta, o come direbbero gli americani, uno che fa slam poetry. La sua poesia urbana mi ha molto ispirato, anzi contagiato, e quindi anche questo fa parte oggi della mia musica.

Quindi hai cavalcato la seconda ondata del rap italiano.

Esatto, per questioni anagrafiche non mi sono appassionato con quella degli anni Novanta, con Sangue Misto, Colle der Fomento, ma con quella del 2004-2005. Fa sempre strano pensare che in mezzo ci sia stato il vuoto più totale. Con i miei colleghi diciamo sempre che noi abbiamo iniziato a fare rap quando era ancora da sfigati e le tipe ti prendevano per il culo (pensa quanto ci piaceva!), perché da un certo punto in poi, invece, è esploso anche qui e ha iniziato a far figo.

Dutch, che cosa ami fare prima dei concerti?

Ora che abbiamo iniziato a fare un po’ di date serrate mi sono messo via il fatto che la voce è uno strumento e va trattata come tale. Quindi, dovessi vedermi prima di un live, mi troveresti come uno scemo a fare riscaldamento vocale. Non molto sexy, devo dire, ma molto utile. Poi salto la cena, perché canto meglio se non ho mangiato, e quindi fantastico su che cosa mangerò appena sceso dal palco.

Ultima domanda: ci parli del progetto R.A.P., Revolution Art Poetry?

Burbank ha vinto un bando della provincia di Trento per andare a scoprire il ruolo della poesia e del rap nella Palestina occupata (è di qualche giorno fa la notizia che la situazione si sta ancora più inasprendo, con tantissimi coloni in Cisgiordania). Noi volevamo capire che importanza avessero quelle due forme espressive in quel contesto. Abbiamo scoperto che in Palestina la poesia ha una tradizione secolare, i poeti sono delle super star, mentre i rapper sono ancora malvisti, perché troppo collegati alla cultura americana. Il primo rapper a rappare in palestinese è stato Rami GB. Lentamente si stanno conquistando i propri spazi, anche se devono costantemente lottare contro i pregiudizi, il rap è vissuto come una forma di imperialismo culturale, tu che non sei americano dovresti dedicarti alla poesia non al rap. È una dialettica che ho trovato molto interessante.