L’inizio del 2020 ha sradicato molte di quelle cose che facevano parte della mia normalità, come andare ai concerti, divertirmi facendo djset davanti ad un pubblico in carne ed ossa e non ad un me stesso riflesso in un monitor, comprare i biglietti per il festival che avrebbe reso speciale la mia estate. Proprio la scorsa estate al Sónar ho avuto la fortuna di conoscere ed intervistare Lorenzo Senni e quando pregustavo già di godermi un suo live set, ancora una volta in quel di Barcellona ma nella cornice del Primavera Sound, mi sono trovato confuso e schiacciato in un mondo tanto più piccolo di quello consueto, ma proprio lì, tra le mura di casa, è arrivato come via di fuga e a portare un po’ di good vibes l’ascolto del suo nuovo disco Scacco Matto.

Scacco Matto a chi o a che cosa?
A tutto. Sicuramente a me stesso perché mi sono dovuto mettere alla prova. Ho giocato una partita in cui a volte la musica andava in direzioni che non avevo preventivato e dovevo fermarmi per riflettere e chiedermi se era quello che volevo fare o no. Quando ho scelto il nome del disco ho capito dove volevo arrivare e che significato avrebbe avuto per me. Mi sono detto “allora questo è il disco in cui sono un po’ meno rigido, e mi lascio anche trasportare in zone che non avevo pensato di esplorare”, il tutto rimanendo comunque nel mio campo d’azione, cioè non ho fatto un pezzo drum’n’bass o cantato. La scelta del titolo è arrivata quasi come una premonizione perché poi in scacco matto ci siamo andati tutti con il Corona. Scacco matto un po’ a tutto, ma in particolare a me e alla mia musica.

La tua musica, pur essendo apparentemente molto settoriale, riesce ad attraversare i confini del pop portandoti a condividere palchi con artisti mainstream. È un risultato voluto?
Non è voluto ma mi fa piacere, è un risultato ottenuto diciamo dando un colpo al cerchio e uno alla botte, una conseguenza del mio modo di relazionarmi con pop e cose più commerciali da un lato e con quelle più underground e sperimentali dall’altro. È una posizione in cui mi sono ritrovato e come tutte quelle posizioni at the edge non è semplice. In Romagna dicono “è come stare sulla schiena del buratello” (sorride). Mi accorgo di avere delle melodie effettivamente catchy che potrebbero esprimersi in un contesto molto molto pop, davvero mainstream, ma non accade per ragioni legate a come approccio la musica e anche a come mi muovo. Se riuscissi ad andare full on pop potrei avere molto più seguito in termini di pubblico, o se al contrario andassi full on sound art magari potrei avere una carriera solida in quel contesto. Preferisco non fare troppi ragionamenti, magari ci penso ogni tanto però purtroppo o per fortuna è qui che mi trovo e ci sto bene.

L’attuale emergenza ha portato al rinvio dei principali festival mondiali, come ripenserai i prossimi mesi che ti avrebbero visto tra i protagonisti?
Mi sono reso conto che l’unica cosa che posso fare è nuova musica, anche se sinceramente ci sarei rimasto un po’ lontano dallo studio, fino magari ad autunno inoltrato ne avrei fatto volentieri a meno. Nella realizzazione di un disco, indipendentemente che lo stesso abbia poi successo o meno, vieni messo alla prova quasi fisicamente, sinceramente non vedevo l’ora di uscire un po’ dallo studio di Milano per suonare in giro. Per me la parte creativa è quella più impegnativa, ho delle aspettative molto alte nei miei confronti e per esser soddisfatto devo lavorare quasi al limite delle mie energie. Quando mi dedico alla parte live sono più rilassato. Questo probabilmente deriva dal mio background, quando suonavo in una band registrare un disco voleva dire aver fatto un sacco di sessioni in studio e di prove con gli altri componenti, partiva il tour che già lo sapevi suonare bene. Per alcuni miei colleghi che fanno più i dj quando sono a casa si ascoltano i dischi, fanno ricerca e si preparano in relax, ed è poi quando escono a suonare che sono più messi alla prova..

Nel riorganizzare la scaletta in base alla risposta della pista per esempio.
Esattamente.

E più in particolare, come è stata la tua routine durante il lockdown?
Le prime settimane non l’ho presa benissimo, mi sono accorto che sarebbe stato un anno difficile quando mi attendevano una bella serie di date in tutto il mondo. Ero pronto ad uscire incontrare i miei colleghi, backstage, gente che si diverte sotto il palco cose così. Non l’ho presa benissimo davvero, però poi alla fine ho avuto una reazione anche abbastanza forte. Ho iniziato ad andare in studio anche a lockdown pesante, se mi fermano – mi son detto – gli faccio vedere che ho lo studio qua a 500 metri e devo andare al lavoro. Cioè dovevo andare di sotto a fare cose nuove perché se no…E quindi dopo mi sono messo a produrre nuova musica, con ritmi tranquilli, però ho iniziato a far le mie cose, come ti dicevo prima mi sono reso conto che non potevo fare altrimenti.

Parliamo dell’artwork di copertina e della tua passione per la fotografia. Che esperienza è stata conoscerne l’autore John Divola che come hai dichiarato ha anche influenzato le tue produzioni?
È stato davvero figo, c’è stata la possibilità di farlo grazie a Warp. Il lavoro di John Divola lo conosco da tanti anni perché ho avuto la fortuna di frequentare da giovane Guido Guidi. All’università ho fatto un esame di Storia della fotografia, e ho visto “Guido Guidi”. Ho chiesto ai miei genitori “ma è Guido il fotografo che abita a 500 metri da qua?” “Sì, sì” “Come? Guggenheim, Moma? Io pensavo facesse le fototessere!” E lì mi si è aperto un mondo.  Per due anni della mia vita tutti i pomeriggi andavo da lui, ho imparato a stampare e ho studiato la sua libreria, e mi sono appassionato al lavoro dei fotografoni americani e a quello di Divola che mi è rimasto impresso e non mi sono mai scordato. Però, lo sai anche te, da entusiasmarti per un artwork, una foto, un dipinto e poi finire ad averlo sul disco…cioè il passo non è breve. Questo fa parte di una serie di fine anni ‘70 intitolata Zuma, lo sguardo è rivolto verso questo tramonto molto emotional ma incorniciato da una casa abbandonata e distrutta, che l’artista stesso ha poi vandalizzato con dei graffiti. Il progetto conteneva questa idea di vandalizzare dei posti disabitati, ma sempre in maniera pointillista, fatta di puntini e lineette. Insomma c’erano tanti elementi che con il tempo ho trovato affini a quello che stavo facendo. Sono andato ad L.A. per incontrarlo e abbiamo visitato questa base aerea abbandonata dove Divola ha realizzato i suoi graffiti e mi ha scattato delle foto davanti alla sua opera che ho potuto utilizzare per la press release. Al di là del risultato ottenuto, per me è stata un’esperienza importante, io elaboro i miei concept, i mei trip, ma poi sento la necessità di chiudere il cerchio.

Foto sopra e di copertina di John Divola

Quando nelle cose c’è un anima poi esce, secondo me trasmette bene alcuni movimenti che ci sono nel disco, quella del tramonto è una componente romantica legata a certe melodie che nelle tue produzioni precedenti si coglievano meno…
Io ci credo a questa cosa, nel senso che per me tutto deve essere coerente però sono consapevole che io è parecchio tempo che ho a che fare con quello che faccio, con il mio percorso. Gli altri lo incontrano poi lo perdono poi lo rincontrano. Un concetto però, se articolato e pensato con una logica, credo possa arrivare anche quando non è esplicito, un lavoro coerente finisce per esprimersi in un modo molto onesto.

In Canone Infinito inserisci nel titolo una terminologia tipica della musica classica, quanto c’è di classico nelle tue composizioni e quanto di moderno?
Un amico giapponese che ascolta musica classica mi fa “guarda ti faccio sentire che questa cosa che hai fatto, l’hai copiata da Rossini”, ero divertito ma gli ho detto “noo”, e poi me ne ha fatte sentire altre. Ho studiato musicologia e in particolare in Teoria della Musica si percorrevano le soluzioni musicali che avevano adottato i geni come Bach, tutto quello che faccio io non ha la pretesa di aver quella profondità compositiva li, però mi accorgo che certi arrangiamenti rispondo un po’ a dei movimenti che sono comuni nella musica classica. Quando lavoro alle canzoni uso spesso strumenti classici, scrivo la melodia con il piano, l’arrangiamento con gli archi poi ci sono magari dei fiati…ecco l’uso di questi strumenti mi porta sicuramente in quella direzione, solo in un secondo passaggio sostituisco con l’utilizzo di synth. Non è niente di voluto però a volte, riascoltando il pezzo finito, mi accorgo che c’è un po’ quell’idea lì. Non mi dispiace ma non è una mia pretesa.

Move in Silence (Only Speak When It’s Time to Say Checkmate), Dance Tonight Revolution Tomorrow, The Power of Failing hanno invece tutta l’aria di essere degli aforismi, dei consigli.
Questo viene dal mio background punk-hardcore e streight edge. Quello che mi impressionò di più quando da giovane incontrai questa musica era che c’erano sempre dei messaggi, ok in tutte le canzoni ci sono dei messaggi, ma qui i messaggi erano molto diretti. Nei testi trovavi qualche frase molto semplice, che arrivava forte chiara anche a chi è solito prestare più attenzione alla musica rispetto ai testi, che ti diceva di avere un approccio positivo alle cose. Mi è sempre piaciuto l’utilizzo di keywords e di brevi consigli, le così dette quotes, perché ala fine per quanto alcuni siano banali sono anche pieni di verità e mi ci ritrovo. Move in Silence (Only Speak When It’s Time to Say Checkmate) è un po’ il modo in cui vivo io, mi riconosco molto in questa frase, anche perché la mixo con un po’ di scaramanzia. Per esempio finché non avevo le foto di Divola sul mio computer che andavo ad L.A. ad incontralo e fare le foto lo sapevano giusto in Warp e la mia ragazza, sia per scaramanzia che per uscire con l’annuncio a progetto ultimato.

Ci siamo più volte chiesti se questo periodo ci porterà ad essere migliori, più solidali e più attenti alle esigenze del pianeta. Al momento i presupposti non sembrano essere dei migliori. THINK BIG è un invito ad essere ottimisti?
Nello specifico THINK BIG è un invito a realizzare cose che non ti aspetteresti di fare e, sì, rispecchia il mio approccio ottimista al mondo, quindi anche nei confronti dell’umanità…nonostante in questi giorni sia sempre più difficile. Ne parlavamo nei primi giorni di lockdown dovuto al Corona, parlavamo di una maggior solidarietà, di ri-umanizzazione e poi è arrivata l’uccisione di George Floyd ad aprirci gli occhi. Quello che vedo questa volta però è una reazione molto forte a livello mondiale e forse di questo stavamo parlando, ossia di reagire con fermezza e compatti nei confronti delle violazioni dei diritti umani. Il mio messaggio rimane quello: positive Outlook.