L’amore che Luca Quarin ha per le spiagge atlantiche, i paesaggi rarefatti, le coquillages, i vini bianchi con le bollicine, i libri di Roberto Bolaño e Ágota Kristóf, le canzoni di Cat Power e Aimee Mann e i film di Peckinpah, Tarantino e Assaye, in qualche modo si percepisce, e permette di creare l’atmosfera giusta, il mood adeguato per scivolare nel suo mondo fatto di balene e api operaie, moralità discutibili e costate di bisonte a stelle e strisce.

 

Vuoi parlarci del tuo libro?

Il battito oscuro del mondo racconta la storia di quest’indigestione tipicamente occidentale e del rapporto convulso con la realtà che deriva da un desiderio che non trova mai un godimento, un desiderio che ha sempre un dopo, un altro, un ancora. Una condizione schizofrenica che ci vede allo stesso tempo individui e comunità, consumatori e vittime del consumo, soggetti connessi e soggetti separati. Dunque una condizione che mette a dura prova i nostri ricettori della dopamina, il meccanismo biochimico che sta all’origine della psicosi, ossia dello scarto tra ciò che accade e ciò che viene percepito, ma che determina anche il rapporto tra stimolo e ricompensa, che è il fondamento della società capitalista e neoliberista. Tutto questo è la matrice profonda del romanzo e si rintraccia sia nel carattere dei personaggi che nella sua struttura che in alcuni artifici narrativi, come il gioco delle omonimie, per fare un esempio, un disturbo narrativo che costringe il lettore a chiedersi in continuazione se quello che sta leggendo è vero o non è vero, se è possibile o non è possibile, interrogativo che ritengo dovremmo esercitare sempre visto che forse è l’unico antidoto alla narrazione che il capitalismo fa di sé stesso, una narrazione totalitaria che include tutto e ingoia tutto, come una balena.

Perché hai ambientato il tuo romanzo in America? E cosa rappresenta per te questo paese?

È un paese che amo e detesto allo stesso tempo, una costata di bisonte che non vedo l’ora di mangiare ma che una volta finita mi fa temere di morire nel giro di un quarto d’ora, con dolori atroci e spasmi spettacolari, sopraffatto da una colpa primigenia che non so bene quale sia ma che non ho dubbi sia radicata dentro di me. In verità il romanzo è iniziato con il video della canzone I love you di Woodkid, dove l’ambientazione protestante e lo sprofondare del protagonista in un abisso popolato di balene mi hanno evocato le immagini del pionierismo americano, della lotta contro la natura, della fede cieca nella forza e nella caparbietà dell’uomo. Il secondo punto di partenza è stato il desiderio di raccontare Android, il sistema operativo che è diventato la piattaforma attraverso la quale comunichiamo con il mondo e attraverso la quale si muove, sempre di più rapidamente, l’economia del pianeta. Tutto si è messo in moto scoprendo che Andy Ruby, l’inventore di Android, era nato a New Bedford, la cittadina dove inizia Moby Dick, il romanzo fondativo del capitalismo americano. Da qui l’idea di costruire una storia che partisse da quelle radici per raccontare il presente, con una particolare attenzione ai rapporti di forza tra le classi sociali. A questo proposito voglio ricordare che Aronowitz sosteneva che le classi sociali non esistono di per sé ma si definiscono in funzione degli interessi comuni, della memoria storica e delle narrazioni che ne formano l’identità. Se la sua tesi è vera, allora si potrebbe dire che la classe sociale è una manifestazione intermittente di una soggettività collettiva di tipo linguistico, come la balena, in questo caso, è una manifestazione intermittente di una soggettività collettiva di tipo morale.

Il battito oscuro del mondo è pieno di riferimenti storici e racconta quasi sessant’anni di storia americana. Quanto è stata lunga la fase di ricerca? E quanto quella di scrittura?

Ad essere sincero le due fasi sono andate più o meno di pari passo, da un lato scrivevo la storia e dall’altro sentivo l’esigenza di approfondire alcuni argomenti che a loro volta mi davano lo spunto per spingere i personaggi un po’ più avanti di dove li avevo lasciati, e così facendo mi ponevano nuovi interrogativi. Utilizzando la metafora dell’alveare potrei dire che gli avvenimenti sono stati le api e il romanzo lo sciame. E non sto parlando della mappatura del genoma della 23andme né della legge dei ritorni acceleranti di Kurzweil, sto dicendo una cosa molto più semplice, molto più banale: che c’è la regina, ci sono i fuchi e ci sono le api operaie, tutte femmine, che possono essere architetti, ventilatrici, guardiane o bottinatrici. Le più importanti sono ovviamente le bottinatrici, che raccolgono il nettare, lo deglutiscono nell’ingluvie e, una volta giunte nell’alveare, cominciano la trofalassi, quel passaggio di bocca in bocca che si conclude con il deposito nella cella di una grossa goccia viscosa. Il miele uscirà poi dall’organismo per entrare in un altro organismo, che a sua volta ha bisogno di altri organismi per costituire una comunità senza la quale non potrebbe sopravvivere, spazzato dal vento furioso dell’esistenza, e così via, in un ciclo infinito di cellule, di comunità e di organismi. Ecco, dopo due anni e mezzo di questo delirio un giorno ho deciso di mettere la parola fine al romanzo.

È sempre vero che “la storia si ripete”?

Non so dirti se avesse ragione Marx quando sosteneva che la storia reitera sempre il proprio corso, la prima volta in forma di tragedia e la seconda di farsa, oppure Bloch quando diceva che la storia non si ripete mai ma che sono gli storici a ripetersi. In ogni caso ho l’impressione che ci sia una pulsazione profonda, quello che ho chiamato Il battito oscuro del mondo, che tende a ripercorrere le strade battute in precedenza, per quanto fallimentari possano essere state, come se non ci fosse la possibilità di scegliere un’alternativa, di decidere in modo autonomo chi vogliamo essere e dove vogliamo andare. È un po’ il tema del libero arbitrio e della difficoltà di esercitarlo, di qualcosa più antico di noi che agisce senza che ce ne rendiamo conto, spingendoci a seguire sempre la sua stessa traccia, sempre lo stesso percorso, come se fosse la strada che ci conduce a casa anche quando non c’è più una casa.

Che tipo di scrittore sei? Qual è il tuo metodo?

Hai presente il metodo che utilizzava Simenon per scrivere Maigret? Nei primi tre giorni di lavoro entrava in una sorta di trance, quello che definiva “stato di romanzo”, e si metteva a “pedinare” il suo personaggio, facendo lunghe passeggiate nel quartiere dove aveva deciso di ambientare la vicenda e domandandosi quale fosse il profilo psicologico dell’antagonista e quale fosse il cortocircuito sociale alla base del conflitto. Il quarto giorno era dedicato alle famose buste gialle dove raccoglieva i dati biografici dei protagonisti, i nomi e i cognomi dei personaggi (che in genere traeva dagli elenchi telefonici), l’età di ciascuno di loro nelle varie fasi della storia, e tutti gli elementi di ambientazione di cui aveva bisogno. La settimana successiva scriveva tutto quanto il romanzo, lavorando dalle sei e trenta del mattino alle nove. Un capitolo al giorno per sei giorni consecutivi per i romanzi di Maigret e per dieci giorni consecutivi per quelli che lui chiamava i “romanzi duri”. Poi faceva una pausa e nei successivi cinque giorni rivedeva il testo, eliminando gli aggettivi superflui e cercando di dare la massima nitidezza alla scrittura. Riguardo questo processo aveva fatto tesoro dei consigli di Colette, che gli aveva rifiutato alcuni racconti quando era giovane dicendogli che erano troppo letterari. Così ogni volta che trovava una frase meravigliosa, una frase davvero perfetta, la tagliava immediatamente, per evitare che il lettore si trovasse di fronte a qualcosa che lo disorientava. Ecco, io che ho la fortuna di non essere Simenon (o la sfortuna economica, dipende dal punto di vista) penso che uno scrittore contemporaneo debba fare esattamente il contrario. Debba mettere in atto un meccanismo molto più aperto con la finalità di disorientare il lettore o perlomeno di sfidarlo, coinvolgendolo in un sistema narrativo che lo mette al centro del romanzo, alla pari dell’autore, e lo costringe ad assumere su di sé le stesse domande che l’autore rivolge ai propri personaggi, in un processo che non è di consolazione ma è di conoscenza. Concordo quindi con Broch sull’idea che un romanzo che non scopre nulla è immorale. Dopodiché è vero che ho delle idee discutibili sulla moralità come si può vedere nei rapporti tra Abbey e John e tra William ed Elizabeth.

Vuoi dare un consiglio a chi desidera diventare scrittore?

Sinceramente credo di avere più bisogno di ricevere consigli piuttosto che darne, ma se proprio devo farlo direi che ognuno dovrebbe cercare la propria voce, sforzandosi di isolarla del brusio di fondo, dal grande rumore che caratterizza il nostro tempo. Un buon punto di partenza sono gli errori che ciascuno di noi compie quando comincia a scrivere un romanzo e che credo vadano esaltati, piuttosto che eliminati, perché è proprio lì che si nasconde la nostra specificità, il nostro punto di vista, quello che rende la nostra scrittura diversa dalle altre. Detto questo è ovvio che poi si tratta di scrivere fino allo sfinimento, scrivere e buttare via, scrivere e buttare via, finché non rimane più nulla di noto e il romanzo diventa ignoto anche per noi. In quel momento siamo finalmente sullo stesso piano del lettore e insieme a lui possiamo avanzare nel buio sperando di incontrare qualcuno, o lui o noi.

C’è un personaggio di un libro, di un film o di una serie tv in cui ti identifichi? Se sì, quale e perché?

Mi viene in mente un personaggio di un film visto qualche tempo fa, un avvocato della Confederazione del Nord, all’epoca della Guerra di Secessione, che si sparò un colpo di pistola al petto nel corso di un’udienza, mentre tentava di dimostrare l’innocenza di un suo cliente accusato di avere ucciso un tizio durante una rissa al saloon. L’avvocato sosteneva che il morto si fosse sparato accidentalmente da solo, mentre estraeva la pistola dalla fondina in modo maldestro, e che il suo assistito non avesse alcuna responsabilità nella tragedia.
La dimostrazione che mise in atto fu talmente convincente che il giudice assolse il suo cliente ma non poté fare niente per salvare l’avvocato, che morì poco prima della sentenza.