Un progetto ambizioso, senza confini, che unisce l’amore per la musica indie pop al jazz e alla sperimentazione: I Am a Gem è il nuovo album di Marta Arpini, compositrice, arrangiatrice e songwriter di origini italiane che vive da alcuni anni in Olanda.

Marta e il suo disco sono un gioello, una gemma di quelle preziose, che sta ottenendo meritati riconoscimenti in Olanda e in altri paesi d’Europa, e anche alle nostre latitudini ci si sta accorgendo del valore del suo progetto. Grazie alla vittoria, nel 2020, al concorso di stampo internazionale Keep an Eye the Records, come ci racconta in questa intervista, ha potuto realizzare il nuovo lavoro e portarlo dal vivo a un importante show a lei dedicato, aggiungendo al quintetto con cui normalmente si esibisce alcuni elementi di orchestra di cui lei stessa ha scritto e arrangiato le singole parti.

“I Am a Gem” è il tuo nuovo album, com’è nato questo lavoro?

“I Am a Gem” è nato dall’esigenza di iniziare a fare confluire le diverse espressioni musicali di me in un unico progetto — dal desiderio, quindi, di realizzare un album in cui mi sentissi libera di creare, senza limiti stilistici, qualcosa che potesse rispecchiare il più possibile la mia crescita umana e artistica degli ultimi due anni. Nel 2020 avevo tanti progetti diversi aperti, e scrivevo canzoni per ciascuno, lasciandole esistere così, a compartimenti stagni. Nonostante sia stato un periodo estremamente stimolante, avevo la sensazione che il tutto stesse diventando dispersivo. Mano a mano che la mia scrittura
diventava più definita, ho voluto iniziare a raccogliere “sotto lo stesso tetto” più o meno tutto quello che stavo scrivendo, e vedere nella sua eterogeneità un punto di forza, un qualcosa da esplorare. Il mio desiderio era creare qualcosa che fosse un punto di incontro tra le mie diverse influenze, per plasmare un linguaggio da sentire veramente,
totalmente e onestamente mio, senza dover fare compromessi. Così ho chiesto ai musicisti del mio quintetto se avessero voglia di seguirmi in questa sorta di impresa di accumulazione e di sintesi, cominciando ad approcciarsi insieme a me alla mia musica con un’ottica diversa — sempre più lontana da quella “jazzistica” da cui eravamo partiti quasi cinque anni fa, e più orientata verso un tipo di lavoro pop, prodotto, con la canzone e la scrittura al centro.

Quanto la tua musica è influenzata dall’Olanda e dai tuoi studi all’estero?

Credo che la mia musica sia influenzata dall’Olanda nella misura in cui Amsterdam (dove vivo) è una città estremamente internazionale, una specie di mondo intero in miniatura. Esiste, ovviamente, una scena prettamente olandese – soprattutto direi nell’ambito pop -, ma più palesemente nel jazz e nella musica alternativa questa si mescola continuamente e trae energia dalla grande quantità di musicisti “stranieri” che risiedono qui. Per me personalmente questo si traduce nel fatto che piuttosto che sentirmi immersa in “mode” musicali del momento, mi sento circondata da artisti che fanno musica estremamente sincera, “necessaria” direi, per se stessi in primis, per sentirsi a casa anche lontano da casa, per riconoscersi e portare avanti un’estetica e un linguaggio che permettano loro di esprimere veramente la propria identità. C’è molto spazio per sentirsi e fare se stessi, mi sembra, per ricevere molteplici ispirazioni, per essere esposti a quanta più musica possibile, fatta da umani anche molto diversi tra loro.

E quali sono i tuoi artisti di riferimento?

I miei artisti e le mie artiste di riferimento sono prevalentemente americani/e, canadesi/e, inglesi/e, e alcuni europei/e, sì; già da bambina ero molto affascinata da cantautori e band anglofoni (Elliott Smith, Beatles, Jeff Buckley…), e studiare jazz mi ha
inevitabilmente spinta a osservare intensamente gli USA — cosa che, da quando ho finito il conservatorio, è passata dall’essere “studiare e ascoltare i/le jazzisti/e americani/e” a “perdere la testa per cantautori e cantautrici americani/e”, anche di una
scena più underground e alternativa. Alcuni nomi che ho ascoltato ossessivamente negli ultimi tempi (o che amo da sempre):
Andy Shauf, Dirty Projectors, Kalbells, Tōth, Big Thief, Buck Meek e Adrianne Lenker con i loro album solisti, Rufus Wainwright, Chris Weisman, Luke Temple, Kate Davis, Beach Boys, Bill Frisell, Duke Ellington, Wilco, Lomelda, Louis Cole. Dal Benelux: Luwten, David Numwami, Laura Polence, Molino.

 

Nel 2020 hai vinto il concorso “Keep an Eye the Records”, quali opportunità ti ha dato?

Vincere il The Records è stato decisamente ciò che ha dato concretezza e spinta reale ai miei piani e alle mie idee. Si tratta di un premio che fornisce all’artista un budget piuttosto sostanzioso per coprire le spese di realizzazione di un album — a partire dalla pre-produzione, fino alla stampa e alla promozione del disco. Senza questo supporto economico penso che non sarei riuscita e produrre un lavoro così completo. Inoltre, tramite la fondazione, ho potuto mettermi in contatto e decidere di collaborare con Mark Schilders, batterista, polistrumentista e co-producer insieme a me di “I Am a Gem”. Il premio The Records fornisce sì sostegno economico per realizzare concretamente un disco, ma vede anche i progetti vincitori come, appunto, progetti in divenire, che nell’arco di un anno possono seguire uno sviluppo e crescere e maturare. Prevede quindi che le tre band vincitrici siano seguite da un coach, che poi nel mio caso è diventato anche il co-produttore artistico del mio disco.

Nel corso dell’anno scorso, Mark è stata una figura molto importante, che mi ha aiutata a lavorare sulla musica nel dettaglio, senza mai imporre una visione propria o snaturare l’identità dei miei desideri. Si è rivelato una spalla preziosa, che ha gestito insieme a me tutti gli aspetti logistici (e stressanti) del percorso, sgravandomi di diversi pesi e preoccupazioni, e che ha curato una produzione molto delicata e in sintonia con me e la mia visione. Credo che questo incontro sia stato decisivo per me, e mi ha fatta crescere anche da un punto di vista umano. L’armonia e l’energia che si sono create in studio con tutti i musicisti, e in generale con tutti i collaboratori di questo disco, sono un ricordo meraviglioso che porterò con me per sempre. A questo punto della mia vita e della mia carriera, non penso che avrei potuto coinvolgere le tante persone incredibili che hanno reso questo progetto così speciale se non fosse stato per il sostegno del Keep an Eye e del Fund for Performing Art NL.

Cosa ti ha portato a trasferirti in Olanda? Cosa trovi li che secondo te manca in Italia?

Mi sono trasferita in Olanda per continuare e completare i miei studi in canto jazz. Sono stata ammessa al master program del Conservatorium van Amsterdam nel 2017 e mi sono laureata nel 2019. Ho deciso di restare a vivere in Olanda anche perché, in quanto artista e musicista, qui la dignità e la serietà del mio lavoro non sono mai messe in discussione, anzi; esistono numerose opportunità concrete di cui in Italia non vedo neanche l’ombra. Avevo scelto il conservatorio di Amsterdam perché sapevo essere una delle migliori istituzioni in Europa — per studiare jazz, musica classica, pop. Non sono stata delusa, ed essere passata dal conservatorio nei miei primi due anni di vita all’estero è stato abbastanza salvifico, perché mi ha permesso di non sentirmi mai sola, ma subito e sempre circondata da persone simili a me, curiose, intraprendenti, appassionate. Ora
come ora non ho in programma di tornare in Italia; vivere in questa società così variegata e aperta è un bel sogno che mi sto gustando fino in fondo. In Italia, a parte alcune, poche eccezioni, la normalità è fare musica e lavorare esclusivamente con Italiani. Ad Amsterdam canto, suono e scrivo con persone olandesi, messicane, lettoni, tedesche, turche, australiane, neozelandesi, greche, spagnole, portoghesi, italiane… non penso che riuscirei a tornare a vivere in una società in cui questo non è all’ordine del giorno.

“I Am a Gem” è accompagnato da una mini orchestra: com’è nata l’idea? Come è stata sviluppata?

L’idea in realtà era già stata abbozzata nel 2019, quando stavo componendo per il mio final exam al conservatorio. Mi affascinava il fatto di scrivere qualcosa di più lungo e più astratto di una canzone, e di farlo per un organico più ampio, per avere più opzioni timbriche e per fare esperimenti di arrangiamento e orchestrazione, cose che amo ma che non avevo mai studiato in maniera approfondita. Alla fine del 2020, quando io e il mio quintetto abbiamo vinto il Keep an Eye The Records e ho capito che avrei avuto la possibilità concreta di “sognare più in grande”, ho ripreso in mano il progetto imbastito tempo prima, con l’idea di pubblicare un album che fosse più popolato, e che si strutturasse così: una suite suonata da tanti amici al centro, canzoni in quintetto e con apparizioni extra intorno (flauto, clarinetto, trombone), una canzone in solo, totalmente
scarna, a chiudere. Sento che questo disco potenzialmente rappresenta solo l’inizio di un percorso in cui esplorare le potenzialità espressive di un organico ampio e flessibile. Mi piacerebbe continuare su questa strada, e continuare a immaginare di scrivere canzoni che abbiano una palette di suoni molto ricca, colorata, fantasiosa.