C’è un tizio di nome Damon Albarn, che qualcosa di musica pare capirci, che li ha consacrati a suoi pupilli, piazzandoli in apertura agli ultimi concerti dei Blur, chiedendogli una mano per il suo disco solista Everyday Robots e remixando, giusto qualche mese fa, la loro Ballerina in the rain. I fortunati protagonisti di questo sodalizio artistico con l’ideatore dei Gorillaz sono i Fufanu e arrivano da quella terra di talenti eletti che è l’Islanda.

In origine, narra la leggenda, erano un duo techno che si era dato il nome di Captain Fufanu, poi, nel 2015, il frontman Kaktus e il chitarrista Guolaugur, a cui si aggiunge nei live il batterista Erling Bang, hanno svoltato verso sonorità nettamente post-punk che, quantomeno così ben fatte, mancavano da tempo. Il risultato è godibile nel loro primo album Few more days, uscito per One little indian, a cui il 3 febbraio si è andato ad aggiungere il nuovo Sports, che intorno nocciolo sempre prossimo alla new wave ha fatto sbocciare impulsi più pop. Abbiamo raggiunto Kaktus nella sua Reykjavik, purtroppo solo telefonicamente, e ci siamo fatti raccontare qualcosa di Sports e della definizione, facile facile, che gli stessi Fufanu gli hanno dato di “disco new-wave-esq electronic-driven post-punk”.

Prima di tutto da dove arriva il titolo Sports?

Sports è stata la prima canzone che abbiamo scritto per questo secondo album, ci sembrava la più adatta ad aprire il disco e così abbiamo pensato di semplificarci la vita chiamandolo direttamente così. Il mondo dello sport, poi, ci piace e ci riguarda, perché siamo appassionati di tante discipline, ma soprattutto racchiude in sé tanti significati diversi, dalla competizione al continuo tentativo di migliorare, fino alla fatica e alla gratificazione massima quando si fa bene.

Lo avete definito un disco new-wave-esq electronic-driven post-punk: puoi spiegarci meglio?

Prima di tutto volevamo fare un po’ gli scemi, poi volevamo anche dire che questo secondo lavoro è più elettronico, perché ci abbiamo messo dentro un po’ delle nostre radici techno, ma al contempo abbiamo anche cercato nuove sfumature sonore. Mi sembra, riassumendo il tutto, un disco più colorato, ecco.

E per quanto riguarda i testi, che cosa lo ha ispirato?

Il fatto di crescere, di diventare grandi, di sentirsi più adulti. Sì, direi soprattutto questo aspetto della mia vita, a cavallo tra piacevole consapevolezza e un po’ di ansia da abbandono dell’adolescenza. A parte questo aspetto più personale, le cose che mi ispirano sono molto …Islandesi! La natura, c’è poco da fare, per noi è sempre frutto di ispirazione.

Pensi che per una band islandese sia più difficile trovare opportunità per farsi conoscere?

Sì, credo sia un po’ più difficile, perché siamo un’isola ma non solo: un’isola in cui è davvero molto costoso andare anche solo in vacanza. Per uscire dal circuito, pur ricco e stimolante, di musicisti islandesi c’è da faticare non poco, ma detto ciò io sono molto felice di essere nato qui, non per niente ho scelto di rimanere a vivere a Reykjavik e non altrove.

Io trovo particolarmente fantastico che l’Islanda non abbia un esercito.

Esatto, è una figata di cui andare molto orgogliosi.

Com’è nata, invece, l’amicizia con Damon Albarn?

Damon ha sentito il nostro primo album e se n’è mezzo innamorato. Da lì non ci siamo più lasciati e io ho avuto l’onore di collaborare al suo fianco durante la lavorazione di Everdyday Robots. La cosa che ci unisce è senza dubbio la passione, quasi maniacale, per la musica, ma anche una certa spensieratezza nel farla, un senso di puro piacere molto distante dal mito del musicista tormentato.

 

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