I super eroi dovrebbero ringraziare i Belize, perché, almeno a quanto ci risulta, nessuno prima della band varesina si era mai preoccupato di dire che forse, come spiega il frontman Riccardo Montanari “non hanno tutta questa voglia di venire a salvarci di continuo: forse anche Superman ha voglia di farsi i fatti suoi, così come Spiderman che in fondo vorrebbe solo stare con la sua fidanzata e sua zia”. Così, tra eroi mascherati super umanizzati, conversazioni sentimentali, Milano zucchero e catrame, fiori che sono solo spine si dipana Replica, secondo EP, uscito per Ghost Records, di questi 4 ragazzi lombardi, apparsi di volata in questa edizione di X Factor, giusto il tempo necessario per far conoscere, a chi guardava da casa, un pezzo bellissimo come Pianosequenza, che già dalle prime, elegantissime note ha fatto sorridere di soddisfazione Manuel Agnelli. E la stessa cura, la stessa eleganza un po’ fuori dal tempo, pur essendo perfettamente inserita in questo, di tempo, la si può ritrovare in tutte le 5 tracce che compongono Replica: canzoni solide, mature, strutturate, in quello che è un giusto e raro equilibrio tra ricerca musicale e attenzione alle liriche.

Insomma: c’è poco da cazzeggiare intorno ai Belize, perché, detto nel modo più schietto possibile, sono qualcosa che ridà linfa alla scena italiana più legata alle cornici elettroniche in cui inserire paesaggi. Che, nel caso di Replica e dei suoi autori, sono ipnotici il giusto per farceli inserire tra le proposte imprescindibili del 2017.

Riccardo, partiamo dal nome: prima di tutto non siete un fake come Cambogia, giusto?

No, assolutamente no, anche se ci ha fatto molto ridere quando è uscita quella notizia su Cambogia!

Come mai questo nome?

Sia per ragioni estetiche che di contenuto: stavamo cercando un nome corto, una parola sola, anche perché in quel momento giravano band con nomi lunghissimi, e che fosse pronunciabile sia in italiano che in inglese, perché ai tempi non sapevamo ancora bene che cosa avremmo fatto. L’illuminazione è arrivata guardando Breaking bad, dove veniva menzionato il Belize da Saul Goodman, che nella quinta stagione se ne usciva con “dobbiamo fargli fare un viaggio in Belize”, intendendo che si doveva far fuori il poveretto in questione.

Venite da Varese: che tipo di scena c’è nella vostra città?

Varese, ma soprattutto Luino nel 2011-2012 era una realtà molto viva, musicalmente parlando, piena di gruppi, tra tutti i Triangolo, e di locali che facevano suonare, quindi la scena era davvero molto bella e stimolante, con concerti il giovedì, venerdì e sabato sera. Questa cosa, poi, si è un po’ persa, e negli ultimi due anni c’è stato pochissimo, ma noi non ci siamo fatti contagiare e siamo nati proprio quando la musica a Varese era un po’ morta, anche se ora sta rinascendo pian piano.

La provincia è più una risorsa o un ostacolo per chi vuole vivere di musica? 

Io sono felicissimo di essere di Varese, penso che se non venissimo da quel tipo di provincia non avremmo fatto quel che abbiamo fatto. Secondo me essere di provincia ti da una libertà maggiore rispetto a quella che ha chi viene da Milano o Roma, perché non essendoci mode, non essendoci locali che impongono un tipo di suono, hai la possibilità di fare davvero quel che ne hai voglia. Perché hai meno cose da perdere.

Com’è cambiato il vostro suono dal primo lavoro Spazioperso a Replica?

Secondo me c’è stata un’evoluzione pazzesca. Quando abbiamo iniziato, nel 2014, ci conoscevamo poco, perché non siamo amici di lunga data, ma gente che si conosceva di vista e giusto perché tutti suonavamo in altri gruppi. Ci siamo scelti in modo “professionale” e abbiamo iniziato a dare forma a questo progetto con la massima serietà. Rispetto a Spazioperso questo disco è stato scritto con molta più consapevolezza, sia dei nostri pregi, ma soprattutto dei nostri difetti. Abbiamo fatto una grande ricerca di suoni e strumentazione e nei testi ho messo al primo posto le emozioni.

Quindi la tua ispirazione principale qual è stata?

Quest’anno ho provato una serie di emozioni che non avevo mai provato prima in vita mia, e se nel primo disco parlavo di cose come cambiare città oppure trovare i propri spazi, qui al primo posto ci sono i sentimenti.

Ti viene naturale trasformare i sentimenti in canzoni o ti ci devi mettere?

Dipende. Di base, il punto di partenza viene così di getto che non so nemmeno come spiegarlo. Sembra quasi una roba casuale, però poi, con quelle due linee casuali tra le mani, entra la parte razionale e cerco di trovare un senso, un compimento. Poi, se devo essere sincero, in Replica non ho fatto tutto da solo, ma mi ha aiutato unaltra persona.

Della band?

No, totalmente esterna a tutto.

Manteniamo il mistero?

Sì (ride)

Ok, allora parliamo di Superman: quella canzone è metafora di qualcosa o volevi davvero parlare delle pene dei super eroi?

Questo pezzo nasce dal fatto che mi ero accorto di avere una sorta di personaggio, di identità che non era totalmente la mia, ma era costruita, anche, credo, a causa dei social network. Così mi sono detto: ok, io non sono così come spesso appaio, sono molto più normale. Sulla scia di questa riflessione ho scritto questo elogio alla normalità dove faccio il paragone con i super eroi, che vivono da sempre questa doppia identità che li vede in qualche modo costretti a salvare il mondo, quando vorrebbero, magari, solo stare tranquilli.

Quindi ai provini di X Factor 11 sei andato in veste di Kent o di Superman?

Di Kent, al 100%. La verità, poi, è che noi non eravamo molto convinti di andare, ce l’hanno proposto loro perché fanno scouting tra le band e sono riusciti a farci dire di sì. Siamo andati, comunque, a portare quello che siamo, ovvero una band che canta con autotune e vocoder, e in competizione canora è una cosa stranissima, ma non volevamo snaturarci.

Pensi sia stato utile per voi, anche se siete usciti ai bootcamp?

Sì, perché siamo stati riscoperti dal mondo indipendente che non aveva avuto modo di sentirci, e se oggi il nostro disco sta avendo così tanti ascolti penso che sia anche grazie a quell’esibizione. La nostra preoccupazione era incontrare solo quel pubblico televisivo a cui magari piaci ma che ti mola subito, e invece abbiamo attirato anche altri sguardi.

Ho letto che Damon Albarn è un tuo punto di riferimento musicale: perché e quale pezzo, potendo, gli ruberesti.

Quasi tutti (ride). Sì, lui è il mio preferito in assoluto, perché è uno che non si è mai sentito appagato. Si è reinvesto sempre, ha mille progetti diversi ma tutti validissimi e coerenti pur nella loro estraneità. Mi piacerebbe molto avere la sua dote di saper essere credibile facendo cose sempre nuove nel tempo. Lo sanno fare Damon Albarn e Beck.

Il 24 suonerete al Magnolia per il lancio di Replica: come vi preparate al live?

Stiamo costruendo un concerto in cui riproporremo tutte le vecchie canzoni, ma riarrangiate, così anche chi ci ha già visti vedrà qualcosa di diverso, mentre i pezzi di Replica saranno fedeli al disco. Sul live noi siamo molto puntigliosi, lo cambiamo di continuo, ci lavoriamo parecchio.

Sei un frontman emotivo o freddo?

Dipende dalle occasioni. Di certo ora vogliamo mettere la musica, e non noi, in primo piano, anche attraverso le luci molto forti dietro che ci mettono in penombra. Poi, ora sembro super serio, ma anche noi abbiamo fatto dei live mega cazzoni eh!

Avete fuori dei video bellissimi: le idee sono vostre o vi affidate a bravi videomaker?

La maggior parte dei video sono fatti da Federico, il nostro batterista. L’ultimo suo è proprio Pianosequnza e sì, di solito le idee sono sue e mie. Quello in animazione di Superman è opera del nostro amato Giacomo “Aloha Project” Fumagalli, che è praticamente il quinto membro della band.

Per concludere, come vi trovate nella scena indie italiana di oggi?

Mi sa che è un po’ casino questa cosa. Devo dire che a me l’ultimo anno di musica indie italiana non è panciuto per niente. Io sono un grande fan di Cesare Cremonini, ma sentire tutto questo pop, tutta questa leggerezza se non scarsa attenzione verso i suoni, in quella che dovrebbe invece essere una realtà assai più attenta di altre, mi ha deluso. Mi è sembrato che molte band puntassero dritte alle masse, invece di sforzarsi di essere interessanti. Faccio l’esempio dei Canova: ecco, loro secondo me sono una grande band, con una scrittura molto pop, ma non dovrebbero essere nel circuito indie, quanto piuttosto in uno step successivo, anche perché i numeri parlano chiaro.

Dici che si dovrebbe trovare una nuova categoria, tra indie e mainstream?

Forse sì, perché nell’indie oggi molti posti sono occupati, pensa anche a Gazzelle, da musicisti che sono già più avanti. Ma il punto è che bisognerebbe tornare a scoprire la musica nei localini, le band dovrebbero prendersi il rischio di costruire un pubblico partendo dalle 100 persone che li vanno a sentire e accontenti, che verbo desueto. Ma soprattutto chi fa musica dovrebbe essere sincero in quello che si scrive e si suona, invece di cambiare tutto pur di suonare all’Alcatraz.