Lontana dall’intento di scrivere un masterpiece della letteratura italiana, ho voluto comunque riprendere dal buon vecchio Thackeray (e non da Marchetti, attenzione) la serialità delle narrazioni che si susseguono in Vanity Fair e su quella falsa riga costruire un altro tipo di storie.

Anzi, più che storie, le mie vogliono essere delle immagini che cercano di legare alla musica di un brano le sue possibili evocazioni di ambito stilistico, tale che, in questa fiera della vanità, a sfilare siano gli artisti vestiti delle loro note, dei colori invisibili che solo con un orecchio attento si possono percepire.

Sulla passerella della vanità, lasciamo che a succedersi sul catwalk (di artisti e musicisti), sia invece la nudità dell’indie.

Lucio Corsi, Volevo essere un duro

Lo vediamo per la prima volta sul palco dell’Ariston, Lucio Corsi (cover foto) che indossa i panni, potremmo dire, di sé stesso e per questo “più duro” degli altri artisti mascherati e (tra)vestiti di tutto punto per il festival. È proprio questo che infatti ci piace di Lucio, il suo viaggiare in direzione ostinata e contraria, se vogliamo, al mondo che ci vuole sempre più normie e sempre meno bambini.

Brunori Sas, L’Albero delle Noci

Giacca e cravatta per Brunori Sas, dal gusto vintage, come la sua “L’Albero delle Noci”, un vintage che però non puzza di muffa, anzi. Brunori ci riporta alla poesia del cantautorato classico ormai difficile da ritrovare nella “musica contemporanea”. Sa toccare le corde dei nostri cuori, nemmeno così tanto piano. E va bene così.


Joan Thiele, Eco

Che esordio a Sanremo quello di Joan Thiele, che con eleganza, non solo per i bellissimi abiti Chanel, si presenta sul palco con “Eco”, un brano, estratto dal primo album interamente in italiano “Joanita”, che parla di paura e di insicurezze e che non tradisce lo stile indierock dell’artista. Le chitarre ci fanno sognare: siamo al cinema, magari sta per iniziare un film western, magari Django Unchained di Tarantino.

 

C+C=Maxigross, Ultima Canzone

La fine che diventa un nuovo inizio, un brano sospeso tra la malinconia della fine e l’urgenza di ricominciare. Questa è “Ultima Canzone” dei C+C=Maxigross che con questo brano costruiscono un paesaggio sonoro etereo e instabile, in cui registratori a cassette, mellotron e pianoforte si intrecciano in una micro-sinfonia fluttuante, quasi ultraterrena. Le voci si fanno coro, come un rito collettivo che trasforma il buio in possibilità. L’atmosfera onirica le incursioni jazz e le sperimentazioni rumoristiche, amplificano la sensazione di un viaggio nel bardo, in bilico tra dissoluzione e rinascita. “Ultima canzone” è una dichiarazione poetica, un atto di resistenza contro l’oscurità attraverso l’arte e la comunità.

Leatherette, Delusional

“Delusional” dei Leatherette esplode di energia cruda e istintiva, una corsa sfrenata tra euforia e inquietudine. Il ritmo frenetico e ipnotico spinge a ballare, ma sotto la superficie si cela un’irrequietezza palpabile. Le chitarre abrasive creano un ponte tra il post-punk degli anni ‘90 e l’elettronica attuale. Il brano cresce fino a un climax grunge che spiazza e scuote, per poi dissolversi nel nulla, lasciando solo l’eco di una domanda irrisolta.

Maseeni, Dell’io e delle cose

In “Dell’io e delle cose” il confine tra sogno e realtà si dissolve tra echi psichedelici e una tensione quasi mistica. La voce di MASEENI guida questo percorso con una delicatezza ipnotica, tra introspezione e slancio cosmico. Il brano si muove con la grazia di una ballata fuori dal tempo, evocando una dimensione in cui la verità si sgretola e l’io si perde per ritrovarsi in una nuova forma.

Gaia Banfi, Seia

“Seia” di Gaia Banfi è un respiro profondo dopo la tempesta, l’abbraccio della quiete. Gaia Banfi costruisce un crescendo travolgente, in cui elettronica e canzone d’autore si intrecciano. Il brano incarna il passaggio dal caos interiore alla ricerca di pace, culminando in un senso di liberazione quasi catartico.